Giaccio da solo nella casa silenziosa,
la lampada è spenta,
e stendo pian piano le mie mani per afferrare le tue
e lentamente spingo la mia fervente bocca verso di te e bacio me fino a stancarmi e ferirmi -
e all'improvviso son sveglio, ed intorno a me
la fredda notte tace,
luccica nella finestra una limpida stella -
o tu, dove sono i tuoi capelli biondi,
dov'è la tua dolce bocca?
Ora bevo in ogni piacere la sofferenza e veleno in ogni vino; mai avrei immaginato che fosse tanto amaro
essere solo essere solo e senza di te!
Federico Garcia Lorca
la lampada è spenta,
e stendo pian piano le mie mani per afferrare le tue
e lentamente spingo la mia fervente bocca verso di te e bacio me fino a stancarmi e ferirmi -
e all'improvviso son sveglio, ed intorno a me
la fredda notte tace,
luccica nella finestra una limpida stella -
o tu, dove sono i tuoi capelli biondi,
dov'è la tua dolce bocca?
Ora bevo in ogni piacere la sofferenza e veleno in ogni vino; mai avrei immaginato che fosse tanto amaro
essere solo essere solo e senza di te!
Federico Garcia Lorca
Saprai che non T'amo e che T'amo
Saprai che non t'amo e che t'amo
perché la vita è in due maniere,
la parola è un'ala del silenzio,
il fuoco ha una metà di freddo.
Io t'amo per cominciare ad amarti,
per ricominciare l'infinito,
per non cessare d'amarti mai:
per questo non t'amo ancora.
T'amo e non t'amo come se avessi
nelle mie mani le chiavi della gioia
e un incerto destino sventurato.
Il mio amore ha due vite per amarti.
Per questo t'amo quando non t'amo
e per questo t'amo quando t'amo.
Pablo Neruda
Corpo di donna ...
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra.
Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli
e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione.
Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un'arma,
come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda.
Ma viene l'ora della vendetta, e ti amo.
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo.
Ah le coppe del seno! Ah gli occhi d'assenza!
Ah le rose del pube! Ah la tua voce lenta e triste!
Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia.
Mia sete, mia ansia senza limite, mio cammino incerto!
Rivoli oscuri dove la sete eterna rimane,
e la fatica rimane, e il dolore infinito.
Pablo Neruda
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra.
Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli
e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione.
Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un'arma,
come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda.
Ma viene l'ora della vendetta, e ti amo.
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo.
Ah le coppe del seno! Ah gli occhi d'assenza!
Ah le rose del pube! Ah la tua voce lenta e triste!
Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia.
Mia sete, mia ansia senza limite, mio cammino incerto!
Rivoli oscuri dove la sete eterna rimane,
e la fatica rimane, e il dolore infinito.
Pablo Neruda
FEBBRAIO
Cosa ci porti, corto febbraio?
Si, dietro l'uscio vi è primavera
con la sua veste dolce e leggiera,
col suo sorriso limpido e gaio.
Tu ci porti le mascherine
coi lieti giorni del carnevale;
empi di canti le gaie sale,
e la tua gioia par senza fine.
C'è chi ti dice, febbraio, amaro
perchè talvolta di pioggia e neve
non sei di certo un mese avaro,
col tuo cappuccio di nubi, greve.
Ma cosa importa? Fresca e leggiera
a te dappresso bionda nel sole,
tutta sorriso, tutta viole,
ecco che appare la primavera
Zietta Liù
Cosa ci porti, corto febbraio?
Si, dietro l'uscio vi è primavera
con la sua veste dolce e leggiera,
col suo sorriso limpido e gaio.
Tu ci porti le mascherine
coi lieti giorni del carnevale;
empi di canti le gaie sale,
e la tua gioia par senza fine.
C'è chi ti dice, febbraio, amaro
perchè talvolta di pioggia e neve
non sei di certo un mese avaro,
col tuo cappuccio di nubi, greve.
Ma cosa importa? Fresca e leggiera
a te dappresso bionda nel sole,
tutta sorriso, tutta viole,
ecco che appare la primavera
Zietta Liù
TEMPORALE
Un bubbolìo lontano. .
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
Un bubbolìo lontano. .
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
Notte d'Estate
L'acqua della fonte
suona il suo tamburo
d'argento.
Gli alberi
tèssono il vento
e i fiori lo tingono
di profumo.
Una ragnatela
immensa
fa della luna
una stella.
F.Garcia Lorca
L'acqua della fonte
suona il suo tamburo
d'argento.
Gli alberi
tèssono il vento
e i fiori lo tingono
di profumo.
Una ragnatela
immensa
fa della luna
una stella.
F.Garcia Lorca
La festa di San Valentino è una ricorrenza dedicata agli innamorati e celebrata in gran parte del mondo il 14 febbraio
IERI SERA ERA AMORE
Ieri sera era amore,
io e te nella vita
fuggitivi e fuggiaschi
con un bacio e una bocca
come in un quadro astratto:
io e te innamorati
stupendamente accanto.
Io ti ho gemmato e l’ho detto;
ma questa mia emozione
si è spenta nelle parole.
Alda Merini
io e te nella vita
fuggitivi e fuggiaschi
con un bacio e una bocca
come in un quadro astratto:
io e te innamorati
stupendamente accanto.
Io ti ho gemmato e l’ho detto;
ma questa mia emozione
si è spenta nelle parole.
Alda Merini
Se
Se un giorno
ti venisse voglia di piangere...
Chiamami.
Non prometto di farti ridere,
ma potrei piangere con te...
Se un giorno
tu decidessi di scappare,
non esitare a chiamarmi.
Non prometto di chiederti di restare,
ma potrei scappare con te.
Se un giorno
ti venisse voglia
di non parlare con nessuno...
chiamami.
In quel momento
prometto di starmene zitto.
Ma…Se un giorno tu mi chiamassi
e non rispondessi...
Vienimi incontro di corsa...
forse Io ho bisogno di te!
ti venisse voglia di piangere...
Chiamami.
Non prometto di farti ridere,
ma potrei piangere con te...
Se un giorno
tu decidessi di scappare,
non esitare a chiamarmi.
Non prometto di chiederti di restare,
ma potrei scappare con te.
Se un giorno
ti venisse voglia
di non parlare con nessuno...
chiamami.
In quel momento
prometto di starmene zitto.
Ma…Se un giorno tu mi chiamassi
e non rispondessi...
Vienimi incontro di corsa...
forse Io ho bisogno di te!
Arietta settembrina
Ritornerà sul mare
la dolcezza dei venti
a schiuder le acque chiare
nel verde delle correnti.
AI porto, sul veliero
di carrubbe l’estate
imbruna, resta nero
il cane delle sassate.
S’addorme la campagna
di limoni e d’arena
nel canto che si lagna
monotono di pena.
Così prossima al mondo
dei gracili segni,
tu riposi nel fondo
della dolcezza che spegni.
ALFONSO GATTO,
X Agosto
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero; cadde tra spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero; disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
Giovanni Pascoli
Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
Se muoio
sopravvivimi con tanta
forza pura
che desti la furia del pallido
e del freddo,
da sud a sud leva i tuoi
occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua
bocca di chitarra.
Non voglio che vacillino
il tuo riso o i tuoi passi,
non voglio che muoia
la mia eredità d'allegria,
non bussare al mio petto,
sono assente.
Vivi in mia assenza
come in una casa.
È una casa tanto grande
l'assenza
che v'entrerai
traverso i muri
e appenderai i quadri all'aria.
È una casa
tanto trasparente
l'assenza
che senza vita
ti vedrò vivere
e se soffri, amor mio,
morirò un'altra volta.
Pablo Neruda
sopravvivimi con tanta
forza pura
che desti la furia del pallido
e del freddo,
da sud a sud leva i tuoi
occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua
bocca di chitarra.
Non voglio che vacillino
il tuo riso o i tuoi passi,
non voglio che muoia
la mia eredità d'allegria,
non bussare al mio petto,
sono assente.
Vivi in mia assenza
come in una casa.
È una casa tanto grande
l'assenza
che v'entrerai
traverso i muri
e appenderai i quadri all'aria.
È una casa
tanto trasparente
l'assenza
che senza vita
ti vedrò vivere
e se soffri, amor mio,
morirò un'altra volta.
Pablo Neruda
A Maria
O Madonnina dai grandi occhi buoni,
che stringi al cuore il tuo bambino biondo:
Madonnina che ascolti e che consoli
tutti quelli che soffrono nel mondo,
stringi anche noi nel tuo dolce mantello,
o Madonnina, noi che t'imploriamo!
Perché, se ti vuoI bene il Bambinello,
anche noi, bimbi, come Lui ti amiamo!
che stringi al cuore il tuo bambino biondo:
Madonnina che ascolti e che consoli
tutti quelli che soffrono nel mondo,
stringi anche noi nel tuo dolce mantello,
o Madonnina, noi che t'imploriamo!
Perché, se ti vuoI bene il Bambinello,
anche noi, bimbi, come Lui ti amiamo!
Rami di pesco
Ferma al quadrivio, mentre piove e spiove
sotto l’aspro alternar delle ventate
chiaccianti come fruste sulle facce
di chi va, di chi viene, una vecchietta
vende rami di pesco.
O primavera
per pochi soldi! O riso, o tremolìo
di stelle rosee su bagnate pietre!
Scompare agli occhi miei la strada urbana
con fango e folla e strider di convogli
sulle rotaie, e saettar nemico
d’automobili in corsa. Ecco, e in un campo
mi trovo: è verde, di frumento appena
sorto dal suolo: pioppi e gelsi intorno
con la promessa delle fronde al sommo
dei rami avvolti in una nebbia d’oro:
e peschi: oh, lievi, oh, gracili, d’un rosa
che non è della terra: ch’è di tuniche
d’angeli, scesi a benedire i primi
germogli, e pronti, a un alito di brezza,
a rivolar da nube a nube in cielo.
Dallo sfondo di quelle strade che si interscano emerge in piena evidenza la figura della vecchietta che vende rami di pesco.
Un'intensa tenerezza vibra nelle esclamazioni della poetessa, che riesce a far scomparire miracolosamente ogni altro elemento della realtà, per sostituirvi quella lieva nuvola di petali rosa, espressione di un mondo angelico, superiore a quello umano.
Ada Negri
sotto l’aspro alternar delle ventate
chiaccianti come fruste sulle facce
di chi va, di chi viene, una vecchietta
vende rami di pesco.
O primavera
per pochi soldi! O riso, o tremolìo
di stelle rosee su bagnate pietre!
Scompare agli occhi miei la strada urbana
con fango e folla e strider di convogli
sulle rotaie, e saettar nemico
d’automobili in corsa. Ecco, e in un campo
mi trovo: è verde, di frumento appena
sorto dal suolo: pioppi e gelsi intorno
con la promessa delle fronde al sommo
dei rami avvolti in una nebbia d’oro:
e peschi: oh, lievi, oh, gracili, d’un rosa
che non è della terra: ch’è di tuniche
d’angeli, scesi a benedire i primi
germogli, e pronti, a un alito di brezza,
a rivolar da nube a nube in cielo.
Dallo sfondo di quelle strade che si interscano emerge in piena evidenza la figura della vecchietta che vende rami di pesco.
Un'intensa tenerezza vibra nelle esclamazioni della poetessa, che riesce a far scomparire miracolosamente ogni altro elemento della realtà, per sostituirvi quella lieva nuvola di petali rosa, espressione di un mondo angelico, superiore a quello umano.
Ada Negri
X Agosto
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
Poesia per il Papà
di Giovanni Pascoli
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
Poesia per il Papà
di Giovanni Pascoli
Ricordo
Sempre che un giardino m'accolga
io ti riveggo, Padre, fra aiuole,
lievi le mani su corolle e foglie,
vivo riveggo carezzare tralci,
allevi rose e labili campanule,
silenzioso ti smemorano i giacinti,
stai fra colori e caldi aromi, Padre,
solitario trovando, ivi soltanto,
pago e perfetto senso all'esser tuo.
Sibilla Aleramo
io ti riveggo, Padre, fra aiuole,
lievi le mani su corolle e foglie,
vivo riveggo carezzare tralci,
allevi rose e labili campanule,
silenzioso ti smemorano i giacinti,
stai fra colori e caldi aromi, Padre,
solitario trovando, ivi soltanto,
pago e perfetto senso all'esser tuo.
Sibilla Aleramo
" Questa donna"
E si lasciò andare, finalmente ,
e si sentì svuotare, lentamente,
e cominciò a pensare, veramente,
cosa fosse la vita, improvvisamente.
Nasce la nuova donna,
dal grembo della madre austera ,
non quella della carne,
ma dalla terra infinitamente vera .
La madre della notte,
del buio più profondo,
di quelle emozioni che ti sbattono contro i muri,
e che ti mandano a fondo.
Vedere chi sei e quanto per chi puoi essere,
non basta a vellutare il profondo malessere.
C’è voluto poco per buttare giù le mura,
pensavi fossero di cemento,
sono di gesso, ancora.
Ho creduto ai miei occhi,
ho creduto ai tuoi
i miei vedevano arcobaleni
sbiaditi, poi.
Magari un percorso , un piccolo sentiero,
un prato di margherite, e non un roseto intero.
Anche solo questo volevo,
margherite e rugiada
e poi abbandonare da te il sentiero,
per riprendere una solitaria strada .
Battono le tempie,
sono troppi i pensieri,
folla di emozioni e di inesauditi desideri.
“Mi sento dentro” ed è questa la donna che vogliono vera ,
monocromatica, antica, cerebrale e bugiardamente sincera,
abbandonata dalla luce,
nata dalla madre austera .
E’ fredda nei pensieri,
sterile di desideri,
incatenata all’ovvietà plurale,
lesta a recitarsi la vita che le volete dare..
Spettatori siate contenti.
Applausi a non finire,
per la donna comune,
ma non per quella che vuole vivere,
e non morire.
Ornella Caramanna
e si sentì svuotare, lentamente,
e cominciò a pensare, veramente,
cosa fosse la vita, improvvisamente.
Nasce la nuova donna,
dal grembo della madre austera ,
non quella della carne,
ma dalla terra infinitamente vera .
La madre della notte,
del buio più profondo,
di quelle emozioni che ti sbattono contro i muri,
e che ti mandano a fondo.
Vedere chi sei e quanto per chi puoi essere,
non basta a vellutare il profondo malessere.
C’è voluto poco per buttare giù le mura,
pensavi fossero di cemento,
sono di gesso, ancora.
Ho creduto ai miei occhi,
ho creduto ai tuoi
i miei vedevano arcobaleni
sbiaditi, poi.
Magari un percorso , un piccolo sentiero,
un prato di margherite, e non un roseto intero.
Anche solo questo volevo,
margherite e rugiada
e poi abbandonare da te il sentiero,
per riprendere una solitaria strada .
Battono le tempie,
sono troppi i pensieri,
folla di emozioni e di inesauditi desideri.
“Mi sento dentro” ed è questa la donna che vogliono vera ,
monocromatica, antica, cerebrale e bugiardamente sincera,
abbandonata dalla luce,
nata dalla madre austera .
E’ fredda nei pensieri,
sterile di desideri,
incatenata all’ovvietà plurale,
lesta a recitarsi la vita che le volete dare..
Spettatori siate contenti.
Applausi a non finire,
per la donna comune,
ma non per quella che vuole vivere,
e non morire.
Ornella Caramanna
Inverno
E' notte, inverno rovinoso. Un poco
sollevi le tendine, e guardi. Vibrano
i tuoi capelli selvaggi, la gioia
ti dilata improvvisa l'occhio nero;
che quello che hai veduto - era un'immagine
della fine del mondo - ti conforta
l'intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.
Umberto Saba
sollevi le tendine, e guardi. Vibrano
i tuoi capelli selvaggi, la gioia
ti dilata improvvisa l'occhio nero;
che quello che hai veduto - era un'immagine
della fine del mondo - ti conforta
l'intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.
Umberto Saba
La Befana
Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! La circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce.La neve è il suo mantello
ed il gelo il suo pannello
ed il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.
E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.
Che c’è dentro questa villa?
Uno stropiccìo leggero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
Che c’è dentro questa villa?
Guarda e guarda...tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
guarda e guarda...ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
Oh! tre calze e tre lettini.
Il lumino brilla e scende,
e ne scricchiolan le scale;
il lumino brilla e sale,
e ne palpitan le tende.
Chi mai sale? Chi mai scende?
Co’ suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampada di chiesa.
Co’ suoi doni mamma è scesa.
La Befana alla finestra
sente e vede, e s’allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
trema ogni uscio, ogni finestra.
E che c’è nel casolare?
Un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
Ma che c’è nel casolare?
Guarda e guarda... tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra la cenere e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
Oh! tre scarpe e tre strapunti
E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila...
Veglia e piange, piange e fila.
La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.
La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange e c’è chi ride;
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sull’aspro monte.
Giovanni Pascoli
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! La circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce.La neve è il suo mantello
ed il gelo il suo pannello
ed il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.
E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.
Che c’è dentro questa villa?
Uno stropiccìo leggero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
Che c’è dentro questa villa?
Guarda e guarda...tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
guarda e guarda...ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
Oh! tre calze e tre lettini.
Il lumino brilla e scende,
e ne scricchiolan le scale;
il lumino brilla e sale,
e ne palpitan le tende.
Chi mai sale? Chi mai scende?
Co’ suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampada di chiesa.
Co’ suoi doni mamma è scesa.
La Befana alla finestra
sente e vede, e s’allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
trema ogni uscio, ogni finestra.
E che c’è nel casolare?
Un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
Ma che c’è nel casolare?
Guarda e guarda... tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra la cenere e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
Oh! tre scarpe e tre strapunti
E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila...
Veglia e piange, piange e fila.
La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.
La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange e c’è chi ride;
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sull’aspro monte.
Giovanni Pascoli
Gennaio
Bigio il ciel, la terra brulla,
questo mese poverello
nella sporta non ha nulla
ma tien vivo un focherello.
Senza greggia e campanello
solo va, pastor del vento.
Con la neve sul cappello
fischia all'uscio il suo lamento.
Breve il dì, lunga la notte,
cerca il sole con affanno.
ha le tasche vuote e rotte,
ma nasconde il pan d'un anno.
questo mese poverello
nella sporta non ha nulla
ma tien vivo un focherello.
Senza greggia e campanello
solo va, pastor del vento.
Con la neve sul cappello
fischia all'uscio il suo lamento.
Breve il dì, lunga la notte,
cerca il sole con affanno.
ha le tasche vuote e rotte,
ma nasconde il pan d'un anno.
A Gesù Bambino
di Umberto Saba
La notte è scesa
e brilla la cometa
che ha segnato il cammino.
Sono davanti a Te, Santo Bambino!
Tu, Re dell’universo,
ci hai insegnato
che tutte le creature sono uguali,
che le distingue solo la bontà,
tesoro immenso,
dato al povero e al ricco.
Gesù, fa’ ch’io sia buono,
che in cuore non abbia che dolcezza.
Fa’ che il tuo dono
s’accresca in me ogni giorno
e intorno lo diffonda,
nel Tuo nome.
e brilla la cometa
che ha segnato il cammino.
Sono davanti a Te, Santo Bambino!
Tu, Re dell’universo,
ci hai insegnato
che tutte le creature sono uguali,
che le distingue solo la bontà,
tesoro immenso,
dato al povero e al ricco.
Gesù, fa’ ch’io sia buono,
che in cuore non abbia che dolcezza.
Fa’ che il tuo dono
s’accresca in me ogni giorno
e intorno lo diffonda,
nel Tuo nome.
E’ nato! Alleluia!
di Guido Gozzano
E’ nato il sovrano bambino,
è nato! Alleluia, alleluia!
La notte che già fu sì buia
risplende di un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaie
suonate! Squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma come nei libri hanno detto
da quattromill’anni i profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Da quattromill’anni s’attese
a quest’ora su tutte le ore.
E’ nato, è nato il Signore!
E’ nato nel nostro paese.
Risplende d’un astro divino
la notte che già fu sì buia.
E’ nato il Sovrano Bambino,
è nato! Alleluia, alleluia!
è nato! Alleluia, alleluia!
La notte che già fu sì buia
risplende di un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaie
suonate! Squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma come nei libri hanno detto
da quattromill’anni i profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Da quattromill’anni s’attese
a quest’ora su tutte le ore.
E’ nato, è nato il Signore!
E’ nato nel nostro paese.
Risplende d’un astro divino
la notte che già fu sì buia.
E’ nato il Sovrano Bambino,
è nato! Alleluia, alleluia!
LA NOTTE DI S. LUCIA
“Drin, drin, drin!” s’ode un campanello
ed ecco nel cielo si vede un asinello,
è un asinello un po’ particolare
perchè riesce perfino a volare!
Sulla sua groppa c’è S. Lucia
la più desiderata che ci sia,
nella sua notte l’attendono i bambini
che porti loro tanti giochini!
D’aprir la porta non c’è n’è bisogno
lei entra come fosse in un sogno,
accompagnata dal suo asinello fidato
che porta le ceste come fosse al mercato!
Dentro ci sono tanti bei doni
solo per i bimbi bravi e buoni,
ma se al contrario han disubbidito
ecco un pezzo di carbone è lì servito!
La mamma le ha lasciato una bevanda calda
perché fuori fa freddo e lei si scalda,
anche per l’asinello c’è qualcosina
per lui per terra c’è un po’ di farina!
Dopo averla mangiata lui lascia un pensiero
tanti cioccolatini e caramelle per davvero,
poi con lei riparte e se ne va via
volando nella notte di S. Lucia!
STA ARRIVANDO S. LUCIA!
Sta arrivando S. Lucia
meglio che in salotto non ci stia,
se la disturbo sul più bello
farò la fine di mio fratello!
“Tutti i doni sequestrati
ed a nuovo ordine rimandati!”
Devo stare attento a non farmi vedere,
ma io sono un “furbo di mestiere”!
Mi apposterò dietro il divano
così avrò una vista in primo piano,
ma….mi sorprende uno sbadiglio,
starò al sicuro nel mio nascondiglio?
Meglio che torni nel mio letto
se non voglio ricevere qualche dispetto,
lì potrò sognarla in santa pace
ed osservarla come più mi piace!
Senza alcun timore d’esser scovato,
mentre la guardo tutto estasiato
sistemare con cura dolci e doni
per tutti i bimbi bravi e buoni!
.
IO SON DICEMBRE
Io son Dicembre
vecchietto, vecchietto,
l'ultimo figlio
dell'anno che muore.
Ma quando nasce Gesù benedetto
reco
nel mondo la pace
e l'amore.
Porto col ceppo
girando i camini
dei bei regali
ai bimbi piccini.
O.Cima
vecchietto, vecchietto,
l'ultimo figlio
dell'anno che muore.
Ma quando nasce Gesù benedetto
reco
nel mondo la pace
e l'amore.
Porto col ceppo
girando i camini
dei bei regali
ai bimbi piccini.
O.Cima
Son tanto brava
Son tanto brava lungo il giorno.
Comprendo, accetto, non piango.
Quasi imparo ad aver orgoglio
quasi fossi un uomo.
Ma, al primo brivido di viola in cielo
ogni diurno sostegno dispare.
Tu mi sospiri lontano:
<Sera, sera dolce e mia!>
Sembrami d'aver fra le dita la
stanchezza di tutta la terra.
Non son più che sguardo,
sguardo sperduto, e vene.
Sibilla Aleramo
Comprendo, accetto, non piango.
Quasi imparo ad aver orgoglio
quasi fossi un uomo.
Ma, al primo brivido di viola in cielo
ogni diurno sostegno dispare.
Tu mi sospiri lontano:
<Sera, sera dolce e mia!>
Sembrami d'aver fra le dita la
stanchezza di tutta la terra.
Non son più che sguardo,
sguardo sperduto, e vene.
Sibilla Aleramo
'A Neva
Nu sole spaccaprete
fatt'a fferz' 'e lenzole
menate dint' 'e bbarche
e ncopp' a tutt' 'e case
ammuntunate sott' 'o Vesuvio
e ncopp' a vocca soja
zucchero in polvere,
cumme si 'e pressa 'e pressa
a uocchio a uocchio
$avesse fatto
uno muorzo surtanto
'e na pasta bignè.
E che cielo!
Nu cielo a tavuletta
trasparente e turchese.
Accussì scenne a Napule,
ncopp' 'o Vesuvio,
'a neve.
Eduardo De Filippo
fatt'a fferz' 'e lenzole
menate dint' 'e bbarche
e ncopp' a tutt' 'e case
ammuntunate sott' 'o Vesuvio
e ncopp' a vocca soja
zucchero in polvere,
cumme si 'e pressa 'e pressa
a uocchio a uocchio
$avesse fatto
uno muorzo surtanto
'e na pasta bignè.
E che cielo!
Nu cielo a tavuletta
trasparente e turchese.
Accussì scenne a Napule,
ncopp' 'o Vesuvio,
'a neve.
Eduardo De Filippo
Canzone d'autunno
I lunghi singhiozzi
Dei violini
D'autunno
Mi feriscono il cuore
Con un languore
Monotono.
Tutto affannato
E pallido, quando
Rintocca l'ora,
Io mi ricordo
Dei giorni antichi
E piango;
E me ne vado
Nel vento maligno
Che mi porta
Di qua, di là,
Simile alla
Foglia morta.
Paul Verlaine
Dei violini
D'autunno
Mi feriscono il cuore
Con un languore
Monotono.
Tutto affannato
E pallido, quando
Rintocca l'ora,
Io mi ricordo
Dei giorni antichi
E piango;
E me ne vado
Nel vento maligno
Che mi porta
Di qua, di là,
Simile alla
Foglia morta.
Paul Verlaine
San Martino
La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor de i vini
l'anime a rallegrar.
Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
sull'uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor de i vini
l'anime a rallegrar.
Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
sull'uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.
SORRIDERE ALLA VITA
Sono andato soldato
per difendere una patria
che ho sempre amato.
Al fronte, uomini e giovani combattevano
per un fine, per un ideale.
Vite spezzate, vite distrutte.
Anch'io ho pianto e sparato,
amato e odiato.
Ero giovane, fiero e bello;
ma son tornato stanco e affaticato.
Un bacio in fronte a mamma che mi aspettava
e un bacio appassionato
all'amore che non mi ha lasciato.
Giulia, alzando gli occhi al ciel, mi dice:
"E' arrivata alfin la pace..."
"Pace sì...ma la guerra mi ha lasciato
il ricordo di chi se n'è andato!"
Non vorrei dimenticare, girare le spalle;
ma ormai sono nonno bis:
sorridere devo alla vita, aprire gli occhi
e andare avanti.
Battista Cherubini
per difendere una patria
che ho sempre amato.
Al fronte, uomini e giovani combattevano
per un fine, per un ideale.
Vite spezzate, vite distrutte.
Anch'io ho pianto e sparato,
amato e odiato.
Ero giovane, fiero e bello;
ma son tornato stanco e affaticato.
Un bacio in fronte a mamma che mi aspettava
e un bacio appassionato
all'amore che non mi ha lasciato.
Giulia, alzando gli occhi al ciel, mi dice:
"E' arrivata alfin la pace..."
"Pace sì...ma la guerra mi ha lasciato
il ricordo di chi se n'è andato!"
Non vorrei dimenticare, girare le spalle;
ma ormai sono nonno bis:
sorridere devo alla vita, aprire gli occhi
e andare avanti.
Battista Cherubini
Al cimitero
Chi entra non faccia rumore.
Preghi, che Dio l'ascolti,
per tanti cuori sepolti,
per chi è ora seminato
in questo lembo di prato.
Tutti abbiamo da ricordare
qualcuno che non può tornare.
(di R. Pezzani)
Preghi, che Dio l'ascolti,
per tanti cuori sepolti,
per chi è ora seminato
in questo lembo di prato.
Tutti abbiamo da ricordare
qualcuno che non può tornare.
(di R. Pezzani)
Chi sono i Santi?
I Santi nel cielo
sono anche i bambini,
sono nonne e nonnini,
sono mamme e papà,
son tutta le gente
fedele al Signore,
che ebbe buon cuore
e tanta bontà.
(E. Pesce Gorini)
sono anche i bambini,
sono nonne e nonnini,
sono mamme e papà,
son tutta le gente
fedele al Signore,
che ebbe buon cuore
e tanta bontà.
(E. Pesce Gorini)
Novembre il mese dei Morti - La leggenda del Crisantemo
C'era una volta un giovane che dovette partire per la guerra ed abbandonare la sua casa e la sua sposa.
Passò un mese, ne passarono due e, finalmente, il giovane tornò: mostrò alla sposa un fiore, una grossa margherita, e le disse: - In ricompensa del mio coraggio, il re mi ha concesso di tornare per alcuni giorni a casa.
Resterò con te tanti giorni quante sono le linguette di questo fiore.
Venne la notte e il giovane si addormentò.
Allora la sposa prese le sue forbici e tagliuzzò le linguette del fiore, in modo che da ognuna di esse ne venissero fuori tre o quattro.
Poi mise il fiore in un vaso, perchè si conservasse vivo e fresco. Con questo inganno riuscì a trattenere lo sposo per molto tempo.
Quando finalmente egli ripartì, lo volle accompagnare fino al campo. Il re voleva punire il giovane, ma la fanciulla gli fece contare le linguette del fiore e il re si convinse che il giovane non si era trattenuto a casa un giorno di più di quanto gli fosse stato ordinato.
Fu così che il crisantemo, il fiore dalle moltissime linguette, nacque dall'astuzia di una fanciulla.
Passò un mese, ne passarono due e, finalmente, il giovane tornò: mostrò alla sposa un fiore, una grossa margherita, e le disse: - In ricompensa del mio coraggio, il re mi ha concesso di tornare per alcuni giorni a casa.
Resterò con te tanti giorni quante sono le linguette di questo fiore.
Venne la notte e il giovane si addormentò.
Allora la sposa prese le sue forbici e tagliuzzò le linguette del fiore, in modo che da ognuna di esse ne venissero fuori tre o quattro.
Poi mise il fiore in un vaso, perchè si conservasse vivo e fresco. Con questo inganno riuscì a trattenere lo sposo per molto tempo.
Quando finalmente egli ripartì, lo volle accompagnare fino al campo. Il re voleva punire il giovane, ma la fanciulla gli fece contare le linguette del fiore e il re si convinse che il giovane non si era trattenuto a casa un giorno di più di quanto gli fosse stato ordinato.
Fu così che il crisantemo, il fiore dalle moltissime linguette, nacque dall'astuzia di una fanciulla.
La notte dei morti
La casa è serrata; ma desta:
ne fuma alla luna il camino,
non filano o torcono: è festa.
Scoppietta il castagno, il paiolo
borbotta. Sul desco c'è il vino,
cui spilla il capoccio da solo.
In tanto essi pregano al lume
del fuoco: via via la corteccia
schizza arida... Mormora il fiume
con rotto fragore di breccia...
È forse (io non odo: non sento
che il fiume passare, portare
quel murmure al mare) d'un lento
vegliardo la tremula voce
che intuona il rosario, e che pare
che venga da sotto una croce,
da sotto un gran peso; da lunge
Quei poveri vecchi bisbigli
sonora una romba raggiunge
col trillo dei figli de' figli.
Oh! i morti! Pregarono anch'essi,
la notte dei morti, per quelli
che tacciono sotto i cipressi.
Passarono... O cupo tinnito
di squille dagli ermi castelli!
o fiume dall'inno infinito!
Passarono... Sopra la luna
che tacita sembra che chiami,
io vedo passare un velo, una
breve ombra, ma bianca, di sciami
(Giovanni Pascoli)
ne fuma alla luna il camino,
non filano o torcono: è festa.
Scoppietta il castagno, il paiolo
borbotta. Sul desco c'è il vino,
cui spilla il capoccio da solo.
In tanto essi pregano al lume
del fuoco: via via la corteccia
schizza arida... Mormora il fiume
con rotto fragore di breccia...
È forse (io non odo: non sento
che il fiume passare, portare
quel murmure al mare) d'un lento
vegliardo la tremula voce
che intuona il rosario, e che pare
che venga da sotto una croce,
da sotto un gran peso; da lunge
Quei poveri vecchi bisbigli
sonora una romba raggiunge
col trillo dei figli de' figli.
Oh! i morti! Pregarono anch'essi,
la notte dei morti, per quelli
che tacciono sotto i cipressi.
Passarono... O cupo tinnito
di squille dagli ermi castelli!
o fiume dall'inno infinito!
Passarono... Sopra la luna
che tacita sembra che chiami,
io vedo passare un velo, una
breve ombra, ma bianca, di sciami
(Giovanni Pascoli)
PROVERBI DI OTTOBRE
"Se piove a S. Gallo (16 ottobre) quaranta dì durallo" in questi giorni si verificano cioè delle piogge persistenti.
"Per San Simone (28 ottobre) leva il bue dal timone e metti la stanga nel vangone" i lavori della campagna, cioè, debbono essere conclusi.
Ma se piove, sappiate che la pioggia sarà di lunga durata se le gocce saranno grosse e cadendo a terra formeranno bolle e anelli.
Uno scroscio di pioggia deve preoccupare anche quando è finito, perchè in genero "finito di bere si sgronda il fiasco"; dopo un primo scroscio di pioggia se ne verifica un secondo.
proverbi brianzoli sulla meteorologia e sui tempi della civiltà contadina.
Utuber, l’è ‘l mes che se pertéga i ruer
(Ottobre è il mese in cui si abbacchiano le querce)
In ottobre non ci sono frutti. In mancanza si abbacchiano le ghiande, che tra l’altro cadono già da sole dalle querce. Naturalmente non dobbiamo dimenticare le castagne, che forniscono pomeriggi di festa davanti ai banchetti delle caldarroste spesso improvvisati dalle associazioni locali. In Veneto dicono “Otobre domanda funghi, castagne e ghiande”.
San Diunîs el va in ciel cun la sua valîs
(San Dionigi va in cielo con la sua valigia)
San Dionigi, come le rondini e gli altri migratori, parte, perché cambia il tempo – è il 9 di ottobre - e si avvicina la brutta stagione. In Sicilia è attestato “San Franciscu, San Franciscu, nesci lu cauru e trasi lu friscu”, ovvero per San Francesco (4 ottobre) “esce il caldo ed entra il fresco”.
O bagnà o söcc per San Lüca sömena töcc
(Bagnato o asciutto, a San Luca seminano tutti)
San Luca, 18 settembre, è l’ultima occasione per seminare i prodotti che si utilizzeranno durante l’inverno, Anche il proverbio italiano concorda: “O molle o asciutto, per San Luca semina”. E ancora: “Da San Gallo (il 16 ottobre) ara il monte e semina la valle” e “Per San Luca chi non ha seminato si speluca”. Incerti i veneti: “San Luca o moja o suta” (o molle o asciutto, mah!). Invece in Istria, a Rovigno, è segnalato: “San Loûca, li nispule sa mangioûca”, a San Luca si mangiano le nespole.
"Per San Simone (28 ottobre) leva il bue dal timone e metti la stanga nel vangone" i lavori della campagna, cioè, debbono essere conclusi.
Ma se piove, sappiate che la pioggia sarà di lunga durata se le gocce saranno grosse e cadendo a terra formeranno bolle e anelli.
Uno scroscio di pioggia deve preoccupare anche quando è finito, perchè in genero "finito di bere si sgronda il fiasco"; dopo un primo scroscio di pioggia se ne verifica un secondo.
proverbi brianzoli sulla meteorologia e sui tempi della civiltà contadina.
Utuber, l’è ‘l mes che se pertéga i ruer
(Ottobre è il mese in cui si abbacchiano le querce)
In ottobre non ci sono frutti. In mancanza si abbacchiano le ghiande, che tra l’altro cadono già da sole dalle querce. Naturalmente non dobbiamo dimenticare le castagne, che forniscono pomeriggi di festa davanti ai banchetti delle caldarroste spesso improvvisati dalle associazioni locali. In Veneto dicono “Otobre domanda funghi, castagne e ghiande”.
San Diunîs el va in ciel cun la sua valîs
(San Dionigi va in cielo con la sua valigia)
San Dionigi, come le rondini e gli altri migratori, parte, perché cambia il tempo – è il 9 di ottobre - e si avvicina la brutta stagione. In Sicilia è attestato “San Franciscu, San Franciscu, nesci lu cauru e trasi lu friscu”, ovvero per San Francesco (4 ottobre) “esce il caldo ed entra il fresco”.
O bagnà o söcc per San Lüca sömena töcc
(Bagnato o asciutto, a San Luca seminano tutti)
San Luca, 18 settembre, è l’ultima occasione per seminare i prodotti che si utilizzeranno durante l’inverno, Anche il proverbio italiano concorda: “O molle o asciutto, per San Luca semina”. E ancora: “Da San Gallo (il 16 ottobre) ara il monte e semina la valle” e “Per San Luca chi non ha seminato si speluca”. Incerti i veneti: “San Luca o moja o suta” (o molle o asciutto, mah!). Invece in Istria, a Rovigno, è segnalato: “San Loûca, li nispule sa mangioûca”, a San Luca si mangiano le nespole.
OTTOBRE
Un tempo, era d'estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all'autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest'aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.
Sole d'autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell'anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t'inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch'è tutta una dolcissima agonia.
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all'autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest'aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.
Sole d'autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell'anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t'inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch'è tutta una dolcissima agonia.
DI LUGLIO
Quando su ci si butta lei,
Si fa d'un triste colore di rosa
Il bel fogliame.
Strugge forre, beve fiumi,
Macina scogli, splende,
E' furia che s'ostina, è l'implacabile,
Sparge spazio, acceca mete,
E' l'estate e nei secoli
Con i suoi occhi calcinanti
Va della terra spogliando lo scheletro.
Giuseppe Ungaretti
Si fa d'un triste colore di rosa
Il bel fogliame.
Strugge forre, beve fiumi,
Macina scogli, splende,
E' furia che s'ostina, è l'implacabile,
Sparge spazio, acceca mete,
E' l'estate e nei secoli
Con i suoi occhi calcinanti
Va della terra spogliando lo scheletro.
Giuseppe Ungaretti
Sole di giugno
Giugno!
Un bel sole rotondo
promessa del pane d'oro
splende sul nostro lavoro,
la festa alla gente del mondo.
Colma la casa di tutti,
carità buona e fiorita,
porta sapore ai frutti,
l'ombra di là dalla vita.
Porta letizia ai bambini,
provvidenza alle bicocche,
I calabroni ai biancospini,
canti alle cune e alle rocce.
Porta miele agli alveari
incendia l'aureola dei santi,
beve nei fiumi e nei mari
con avide lingue fiammanti.
E muore ogni sera tra i monti,
felice del bene compiuto.
La terra gli scaglia un saluto
dall'arco degli orizzonti.
Renzo Pezzani
Un bel sole rotondo
promessa del pane d'oro
splende sul nostro lavoro,
la festa alla gente del mondo.
Colma la casa di tutti,
carità buona e fiorita,
porta sapore ai frutti,
l'ombra di là dalla vita.
Porta letizia ai bambini,
provvidenza alle bicocche,
I calabroni ai biancospini,
canti alle cune e alle rocce.
Porta miele agli alveari
incendia l'aureola dei santi,
beve nei fiumi e nei mari
con avide lingue fiammanti.
E muore ogni sera tra i monti,
felice del bene compiuto.
La terra gli scaglia un saluto
dall'arco degli orizzonti.
Renzo Pezzani
La luce
di Giuseppe Pellegrino
La luce guardò in basso
e vide le tenebre:
Là voglio andare" disse la luce.
La pace guardò in basso
e vide la guerra:
Là voglio andare"
disse la pace.
L' amore guardò in basso
e vide l'odio:
"Là voglio andare"
disse l' amore.
Così apparve la luce
e inondò la terra;
così apparve la pace
e offrì riposo;
così apparve l' amore
e portò la vita.
"E il Verbo si fece carne
e dimorò in mezzo a noi
e vide le tenebre:
Là voglio andare" disse la luce.
La pace guardò in basso
e vide la guerra:
Là voglio andare"
disse la pace.
L' amore guardò in basso
e vide l'odio:
"Là voglio andare"
disse l' amore.
Così apparve la luce
e inondò la terra;
così apparve la pace
e offrì riposo;
così apparve l' amore
e portò la vita.
"E il Verbo si fece carne
e dimorò in mezzo a noi
Gabbiani
di V. Cardarelli
Non so dove i gabbiani
abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua
ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi
amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua
ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi
amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
L'uomo e il mare
di Charles Baudelaire
Uomo libero
sempre tu amerai il mare!
Il mare è il tuo specchio:
contempli l'anima tua
nell'infinito srotolarsi
della tua onda,
e il tuo spirito
è un abisso non meno amaro.
Ti diletti a tuffarti
nel seno della tua immagine;
l'abbracci con gli occhi
e con le braccia,
e il tuo cuore si distrae
talvolta dal proprio battito
al fragor di quel lamento
indomabile e selvaggio.
Entrambi siete
tenebrosi e discreti:
uomo,
nessuno ha sondato
il fondo dei tuoi abissi;
mare,
nessuno conosce
le tue intime ricchezze:
tanto gelosamente serbate
i vostri segreti !
E tuttavia da secoli innumerevoli
vi fate guerra senza pietà nè rimorsi,
tanto amate la strage e la morte,
o lottatori eterni,
o fratelli inseparabili!
La gioia è amore
di Madre Teresa di Calcutta
La gioia è amore,
la conseguenza logica
di un cuore ardente d'amore.
La gioia è una necessità
e una forza fisica.
La nostra lampada arderà
dei sacrifici fatti con amore
se siamo pieni di gioia.
la conseguenza logica
di un cuore ardente d'amore.
La gioia è una necessità
e una forza fisica.
La nostra lampada arderà
dei sacrifici fatti con amore
se siamo pieni di gioia.
La madre
E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
Giuseppe Ungaretti
avrà fatto cadere il muro d’ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
Giuseppe Ungaretti
Le mani della madre
Le Mani della Madre
Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.
Rainer Maria Rilke
Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.
Rainer Maria Rilke
Grazie mamma
Grazie mamma
perché mi hai dato
la tenerezza delle tue carezze,
il bacio della buona notte,
il tuo sorriso premuroso,
la dolce tua mano che mi dà sicurezza.
Hai asciugato in segreto le mie lacrime,
hai incoraggiato i miei passi,
hai corretto i miei errori,
hai protetto il mio cammino,
hai educato il mio spirito,
con saggezza e con amore
mi hai introdotto alla vita.
E mentre vegliavi con cura su di me
trovavi il tempo
per i mille lavori di casa.
Tu non hai mai pensato
di chiedere un grazie.
Grazie mamma.
Judith Bond
perché mi hai dato
la tenerezza delle tue carezze,
il bacio della buona notte,
il tuo sorriso premuroso,
la dolce tua mano che mi dà sicurezza.
Hai asciugato in segreto le mie lacrime,
hai incoraggiato i miei passi,
hai corretto i miei errori,
hai protetto il mio cammino,
hai educato il mio spirito,
con saggezza e con amore
mi hai introdotto alla vita.
E mentre vegliavi con cura su di me
trovavi il tempo
per i mille lavori di casa.
Tu non hai mai pensato
di chiedere un grazie.
Grazie mamma.
Judith Bond
Pioggia di Maggio
Precipita giù giù sulla campagna
una pioggia diffusa ed incessante;
Luccican sotto l'onda che le bagna
l'erba, le siepi e le chiomate piante.
L'alta malinconia che dal ciel viene
copre la valle e la gioconda festa
ch'ivi nel maggio il color verde tiene
oggi appare in sembianza oscura e mesta».
una pioggia diffusa ed incessante;
Luccican sotto l'onda che le bagna
l'erba, le siepi e le chiomate piante.
L'alta malinconia che dal ciel viene
copre la valle e la gioconda festa
ch'ivi nel maggio il color verde tiene
oggi appare in sembianza oscura e mesta».
Ben venga maggio
Ben venga maggio
e 'l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera,
che vuol l'uom s'innamori:
e voi, donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori,
vi fate belle il maggio,
venite alla frescura
delli verdi arbuscelli.
Ogni bella è sicura
fra tanti damigelli,
ché le fiere e gli uccelli
ardon d'amore il maggio.
Chi è giovane e bella
deh non sie punto acerba,
ché non si rinnovella
l'età come fa l'erba;
nessuna stia superba
all'amadore il maggio
Ciascuna balli e canti
di questa schiera nostra.
Ecco che i dolci amanti
van per voi, belle, in giostra:
qual dura a lor si mostra
farà sfiorire il maggio.
Per prender le donzelle
si son gli amanti armati.
Arrendetevi, belle,
a' vostri innamorati,
rendete e cuor furati,
non fate guerra il maggio.
Chi l'altrui core invola
ad altrui doni el core.
Ma chi è quel che vola?
è l'agiolel d'amore,
che viene a fare onore
con voi, donzelle, a maggio.
Amor ne vien ridendo
con rose e gigli in testa,
e vien di voi caendo.
Fategli, o belle, feste.
Qual sarà la più presta
a dargli el fior del maggio?
-Ben venga il peregrino.-
-Amor, che ne comandi?-
-Che al suo amante il crino
ogni bella ingrillandi,
ché gli zitelli e grandi
s'innamoran di maggio.-
Angelo Poliziano
e 'l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera,
che vuol l'uom s'innamori:
e voi, donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori,
vi fate belle il maggio,
venite alla frescura
delli verdi arbuscelli.
Ogni bella è sicura
fra tanti damigelli,
ché le fiere e gli uccelli
ardon d'amore il maggio.
Chi è giovane e bella
deh non sie punto acerba,
ché non si rinnovella
l'età come fa l'erba;
nessuna stia superba
all'amadore il maggio
Ciascuna balli e canti
di questa schiera nostra.
Ecco che i dolci amanti
van per voi, belle, in giostra:
qual dura a lor si mostra
farà sfiorire il maggio.
Per prender le donzelle
si son gli amanti armati.
Arrendetevi, belle,
a' vostri innamorati,
rendete e cuor furati,
non fate guerra il maggio.
Chi l'altrui core invola
ad altrui doni el core.
Ma chi è quel che vola?
è l'agiolel d'amore,
che viene a fare onore
con voi, donzelle, a maggio.
Amor ne vien ridendo
con rose e gigli in testa,
e vien di voi caendo.
Fategli, o belle, feste.
Qual sarà la più presta
a dargli el fior del maggio?
-Ben venga il peregrino.-
-Amor, che ne comandi?-
-Che al suo amante il crino
ogni bella ingrillandi,
ché gli zitelli e grandi
s'innamoran di maggio.-
Angelo Poliziano
A Maria
O Madonnina dai grandi occhi buoni,
che stringi al cuore il tuo bambino biondo:
Madonnina che ascolti e che consoli
tutti quelli che soffrono nel mondo,
stringi anche noi nel tuo dolce mantello,
o Madonnina, noi che t'imploriamo!
Perché, se ti vuoI bene il Bambinello,
anche noi, bimbi, come Lui ti amiamo!
che stringi al cuore il tuo bambino biondo:
Madonnina che ascolti e che consoli
tutti quelli che soffrono nel mondo,
stringi anche noi nel tuo dolce mantello,
o Madonnina, noi che t'imploriamo!
Perché, se ti vuoI bene il Bambinello,
anche noi, bimbi, come Lui ti amiamo!
Paris di notte
Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L' ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le braccia.
Jacques Prèvert
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L' ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le braccia.
Jacques Prèvert
Il mazzo di fiori
Renoir
Che fai laggiu' bambina
Con quei fiori appena colti
Che fai laggiu' ragazza
Con quei fiori seccati fiori
Che fai laggiu' bella donna
Con quei fiori che appassiscono
Che fai laggiu' gia' vecchia
Con quei fiori che muoiono
Aspetto il vincitore.
Jacques Prevert
Con quei fiori appena colti
Che fai laggiu' ragazza
Con quei fiori seccati fiori
Che fai laggiu' bella donna
Con quei fiori che appassiscono
Che fai laggiu' gia' vecchia
Con quei fiori che muoiono
Aspetto il vincitore.
Jacques Prevert
Fotogrammi al tramonto
Se conoscessi il giorno,
del mio ultimo tramonto,
vorrei guardarlo fino a che
l'ultimo raggio di sole
scompare...
Vorrei perdermi
nella meraviglia della natura,
rivivendo fotogramma dopo fotogramma
ogni singolo istante
che la vita mi ha donato.
Vorrei azzittire ogni mio perché,
con la speranza
di aver lasciato un piccolo ricordo indelebile
del mio passaggio.
Vorrei saziarmi
dell'amore che ho ricevuto e donato.
Ed infine vorrei dipingere con i colori del cuore,
l'ultima pagina del mio diario,
in modo che i pochi fogli bianchi mai scritti,
continueranno a parlare di me.--
Antonino Gatto
del mio ultimo tramonto,
vorrei guardarlo fino a che
l'ultimo raggio di sole
scompare...
Vorrei perdermi
nella meraviglia della natura,
rivivendo fotogramma dopo fotogramma
ogni singolo istante
che la vita mi ha donato.
Vorrei azzittire ogni mio perché,
con la speranza
di aver lasciato un piccolo ricordo indelebile
del mio passaggio.
Vorrei saziarmi
dell'amore che ho ricevuto e donato.
Ed infine vorrei dipingere con i colori del cuore,
l'ultima pagina del mio diario,
in modo che i pochi fogli bianchi mai scritti,
continueranno a parlare di me.--
Antonino Gatto
Le mani
Gli presi una mano
e dissi la frase di tutte le donne che cercano di essere tenere...
Mi piacciono le vostre mani"
Mi piacciono le tue mani sai?
Mi piacciono quando guidi e ti sfioro
Quando faccia a faccia al ristorante
Intreccio solo per un attimo la tua alla mia.
Ma sopratutto mi piacciono
Quando mi accarezzano
Quando mi stringono forte a te.
Per questo sono fatte credo... le tue mani.--
Simone De Beauyeir
e dissi la frase di tutte le donne che cercano di essere tenere...
Mi piacciono le vostre mani"
Mi piacciono le tue mani sai?
Mi piacciono quando guidi e ti sfioro
Quando faccia a faccia al ristorante
Intreccio solo per un attimo la tua alla mia.
Ma sopratutto mi piacciono
Quando mi accarezzano
Quando mi stringono forte a te.
Per questo sono fatte credo... le tue mani.--
Simone De Beauyeir
E' PRIMAVERA
Mi piace la primavera, quando il sole esce dal suo letargo invernale e splende radioso e deciso nel cielo
Sono nata il ventuno a primavera
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Alda Merini
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Alda Merini
Primavera classica
Da i verdi umidi margini
La violetta odora,
Il mandorlo s'infiora,
Trillan gli augelli a vol.
Fresco ed azzurro l'aere
Sorride in tutti i seni:
Io chiedo a' tuoi sereni
Occhi un piú caro sol.
Che importa a me de gli aliti
Di mammola non tócca?
Ne la tua dolce bocca
Freme un piú vivo fior.
Che importa a me del garrulo
Di fronde e augei concento?
Oh che divino accento
Ha su' tuoi labbri amor!
Auliscan pur le rosee
Chiome de gli arboscelli:
L'onda d è tuoi capelli,
Cara, disciogli tu.
M'asconda ella gl'inanimi
Fiori del giovin anno:
Essi ritorneranno.
Tu non ritorni piú.
Da i verdi umidi margini
La violetta odora,
Il mandorlo s'infiora,
Trillan gli augelli a vol.
Fresco ed azzurro l'aere
Sorride in tutti i seni:
Io chiedo a' tuoi sereni
Occhi un piú caro sol.
Che importa a me de gli aliti
Di mammola non tócca?
Ne la tua dolce bocca
Freme un piú vivo fior.
Che importa a me del garrulo
Di fronde e augei concento?
Oh che divino accento
Ha su' tuoi labbri amor!
Auliscan pur le rosee
Chiome de gli arboscelli:
L'onda d è tuoi capelli,
Cara, disciogli tu.
M'asconda ella gl'inanimi
Fiori del giovin anno:
Essi ritorneranno.
Tu non ritorni piú.
Alla primavera
Perché i celesti danni
Ristori il sole, e perché l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d'amor desio, nova speranza
Ne' penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l'atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch'amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D'immortal piede i ruinosi gioghi
Scossero e l'ardue selve (oggi romito
Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre
Meridiane incerte ed al fiorito
Margo adducea de' fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
Vide, e stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l'erbe,
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell'umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de' mortali
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l'onte,
Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
Selve remoto accolse,
Viva fiamma agitar l'esangui vene,
Spirar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso.
(Giacomo Leopardi 19° secolo)
La primavera
La primavera si desta, si veste,corre leggera per prati e foreste.Guarda un giardino:
ci nasce un fioretto.Guarda un boschetto:c’è già l’uccellino.Guarda la neve:già scorre un ruscello;viene l’agnello,si china e ne beve.
Guarda il campetto:
già il grano germoglia.Tocca un rametto:ci spunta una foglia.
(R.Pezzani)
La primavera si desta, si veste,corre leggera per prati e foreste.Guarda un giardino:
ci nasce un fioretto.Guarda un boschetto:c’è già l’uccellino.Guarda la neve:già scorre un ruscello;viene l’agnello,si china e ne beve.
Guarda il campetto:
già il grano germoglia.Tocca un rametto:ci spunta una foglia.
(R.Pezzani)
IO PRONUNCIO IL TUO NOME
nelle notti oscure,
quando giungono gli astri
a bere nella luna,
e dormono i rami
delle fronde occulte.
Ed io mi sento vuoto
di passione e di musica.
Folle orologio che canta
antiche ore defunte.
Io pronuncio il tuo nome
in questa notte oscura,
e il tuo nome mi suona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della mite pioggia.
Ti amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha commesso il mio cuore?
Se la nebbia si scioglie
quale nuova passione mi aspetta?
Sarà tranquilla e pura?
Se potessi sfogliare
con le dita la luna!!
Federico García Lorca
Renoir
LA FESTA DEL PAPA'
Ci siamo: tra qualche giorno è la Festa del Papà e la cosa più bella che si possa regalare al proprio papà resta sempre una poesia:
Ricordo
Sempre che un giardino m'accolga
io ti riveggo, Padre, fra aiuole,
lievi le mani su corolle e foglie,
vivo riveggo carezzare tralci,
allevi rose e labili campanule,
silenzioso ti smemorano i giacinti,
stai fra colori e caldi aromi, Padre,
solitario trovando, ivi soltanto,
pago e perfetto senso all'esser tuo.
Sibilla Aleramo
io ti riveggo, Padre, fra aiuole,
lievi le mani su corolle e foglie,
vivo riveggo carezzare tralci,
allevi rose e labili campanule,
silenzioso ti smemorano i giacinti,
stai fra colori e caldi aromi, Padre,
solitario trovando, ivi soltanto,
pago e perfetto senso all'esser tuo.
Sibilla Aleramo
Al padre
Dove sull'acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da tre giorni, è dicembre d'uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele disseccate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po' più in là dell'odio e dell'invidia.
Quel rosso sul tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d'aquila.
E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d'Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo - difficile affinità
di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del Biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
<<Baciamu li mani>>. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
(Salvatore Quasimodo)
PADRE
se anche tu non fossi il mio...
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
E subito la scala tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiavi al muro.
Noi piccoli dai vetri si guardava.
E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella, bambinetta ancora,
per la casa inseguivi minacciando.
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
t’eri visto rincorrere la tua
piccola figlia e, tutta spaventata,
tu vacillando l’attiravi al petto
e con carezze la ricoveravi
tra le tue braccia come per difenderla
da quel cattivo ch’eri tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre…
(Camillo sbarbaro)
se anche tu non fossi il mio...
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
E subito la scala tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiavi al muro.
Noi piccoli dai vetri si guardava.
E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella, bambinetta ancora,
per la casa inseguivi minacciando.
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
t’eri visto rincorrere la tua
piccola figlia e, tutta spaventata,
tu vacillando l’attiravi al petto
e con carezze la ricoveravi
tra le tue braccia come per difenderla
da quel cattivo ch’eri tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre…
(Camillo sbarbaro)
La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva festicciola: << Babbo
- mi disse – voglio uscire oggi con te >>.
Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.
(Umberto Saba)
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva festicciola: << Babbo
- mi disse – voglio uscire oggi con te >>.
Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.
(Umberto Saba)
X Agosto- da Myricae
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
Un ricordo - dai Canti di Castelvecchio
Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi. Era d'agosto.
Avanti la rimessa era già pronto
il calessino. La cavalla storna
calava giù, seccata dalle mosche,
l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi
dell'unghie su le selci della corte.
Era un dolce mattino, era un bel giorno:
di San Lorenzo. Il babbo disse: «Io vo».
E in un gruppo tubarono le tortori.
Esse là nella paglia erano in cova.
Tra quel hu hu, mia madre disse: «Torna
prestino». «Sai che volerò!» «Non correr
tanto: la tua stornella è appena doma».
«Eh! mi vuol bene!» «Addio». «Addio». «Vai solo?
non prendi Jên?» «Aspetto quel signore
da Roma...» «E` vero. Ti verremo incontro
a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.
Tu ci vedrai passando». «Io vi vedrò».
E Margherita, la sorella grande,
di sedici anni, disse adagio: «Babbo...»
«Che hai?» «Ho, che leggemmo nel giornale
che c'è gente che uccide per le strade...»
Chinò mio padre tentennando il capo
con un sorriso verso lei. Mia madre
la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
come dicendo: A cosa puoi pensare!
E le rondini andavano e tornavano,
ai nidi, piene di felicità.
Mio padre palpeggiò la sua cavalla
che l'ammusò con cenno familiare.
Riguardò le tirelle e il sottopancia,
e raccolte le briglie, calmo e grave,
si volse ancora a dire: «Addio!» Mia madre
s'appressò con le due bimbe per mano:
la più piccina a lui toccò la mazza.
Egli teneva il piede sul montante.
E in un gruppo le tortori tubarono,
e si sentì: «Papà! Papà! Papà!»
E un poco presa egli sentì, ma poco
poco, la canna come in un vignuolo,
come v'avesse cominciato il nodo
un vilucchino od una passiflora.
Sì: era presa in una mano molle,
manina ancora nuova, così nuova
che tutto ancora non chiudeva a modo.
Era la bimba che vi avea ravvolte,
come poteva, le sue dita rosa,
e che gemeva: «No! no! no! no! no!»
Mio padre prese la sua bimba in collo,
col suo gran pianto ch'era di già roco;
e la baciò, la ribaciò negli occhi
zuppi di già per non so che martoro.
«Non vuoi che vada?» «No!» «Perché non vuoi?»
«No! no!» «Ti porto tante belle cose!»
«No! no!» La pose in terra: essa di nuovo
stese alla canna le sue dita rosa,
gli mise l'altro braccio ad un ginocchio:
«No! no! papà! no! no! papà! no! no!»
Non s'udì che quel pianto e quei singulti
nel tranquillo mattino tutto luce.
Più non raspava i ciottoli con l'unghia
la cavalla, e volgea la testa smunta
alla bimba. E le tortori, hu, hu!
Povera bimba! non avea compiuti
due anni, e ancor dormiva nella culla.
Sapea di latte il suo gran pianto lungo:
assomigliava ad un vagir notturno.
Mio padre disse: «Non partirò più».
Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
Lontanò essa con un ringhio acuto.
E mio padre baciò la creatura,
e le disse: «Non vado: entro; mi muto,
e sto con te. Perché tu sia sicura,
prendi la canna». Rabbrividì tutta
essa, come un uccello quando arruffa
le piume; le spianò; poi con le due
braccia abbracciò la canna di bambù.
Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
non tornò più. Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto,
lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch'era sano,
e che avrebbe vissuto anche molti anni.
Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
ma piena del suo sangue era una mano.
Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
ciò che di lui rimase, ove sarà?
Sorella, a volte penso che tu l'abbia,
che tu lo tenga ancora fra le braccia.
Così mi pare a volte, che ti guardo
e tu non vedi, ché tu stai pregando.
Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
e tieni ancora gli occhi fissi in alto.
Stai come quando ti lasciò tuo padre;
sicura, come allora. Ma una lagrima
ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
balbetta ancora, sì: «Papà! Papà!»
da "Requiem" di P. Valduga, una raccolta (decisamente drammatica) dedicata interamente alla malattia e morte del padre della poetessa:
Anima, perduta anima, cara,
io non so come chiederti perdono,
perché la mente è muta e tanto chiara
e vede tanto chiaro cosa sono,
che non sa più parole, anima cara,
la mente che non merita perdono,
e sto muta sull'orlo della vita
per darla a te, per mantenerti in vita.
Oh padre padre, patria del mio cuore,
che per tanto tempo solo col tuo male,
per giorni e giorni e notti di terrore,
come in una sequenza cerebrale
ti vedo, solo, solo, e senza amore,
annegare tacendo nel tuo male
tra chi sa e capisce e non sa amare
e chi non sa capire, e non sa amare.
Che ore nere devi aver passato,
ore per dire anni, dire vita,
fino a questo novembre disperato
di vento freddo, di fronda ingiallita,
padre ingiallito come fronda al fiato
di tutto il vento freddo della vita,
dell'amore frainteso e dissipato,
dell'amore che non ti è stato dato.
Oh padre padre che conosco ora,
soltanto ora dopo tanta vita,
ti prego parlami, parlami ancora:
io fallita come figlia, fuggita
lontano un giorno, e lontana da allora,
non so niente di te, della tua vita,
niente delle tue gioie e degli affanni,
e ho quarant'anni, padre, ho quarant'anni!
A mio padre
Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
- Com’è bella notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno - Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.
Alfonso Gatto
Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
- Com’è bella notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno - Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.
Alfonso Gatto
IL BAMBINO PERDUTO di William Blake
Babbo, babbo, dove vai?
Oh, non camminare così veloce.
Parla, babbo, parla al tuo bambino,
O io mi perderò.
La notte era scura, nessun padre c’era;
Il bimbo era bagnato di rugiada;
il fango era profondo,
e il bimbo pianse,
e la nebbia svanì fugace.
Babbo, babbo, dove vai?
Oh, non camminare così veloce.
Parla, babbo, parla al tuo bambino,
O io mi perderò.
La notte era scura, nessun padre c’era;
Il bimbo era bagnato di rugiada;
il fango era profondo,
e il bimbo pianse,
e la nebbia svanì fugace.
Le donne del Risorgimento
La storia del Risorgimento è costellata di donne che vanno spesso oltre gli stereotipi del loro tempo. Donne garibaldine, mazziniane, monarchiche, repubblicane. Donne del Nord, del Centro, del Sud
TERESA CASATI CONFALONIERI,
una carbonara alla scala
Teresa nasce a Milano dalla Contessa Maria Origoni e dal Conte Gaspare Casati il 7 settembre 1787. Da piccola la ragazza aveva un carattere mite, sensibile e impressionabile. A sei anni perse la madre e si chiuse in un ostinato mutismo insormontabile sia per il padre sia per l’amorevole matrigna, la Contessa Luigia Settala. L’unica soluzione era affidare Teresa alle suore del convento di S. Agostino, istituto preferito dall’alta aristocrazia milanese. Nel 1802 a quindici anni fu chiesta in sposa da un ufficiale francese, il duca Pasquier che voleva allontanarla dai libri di letteratura e di storia, ma soprattutto dalla tristezza del convento; ma ella rifiutò.
una sera del novembre 1806, pochi giorni dopo aver lasciato il collegio, a Milano, nel Reale Orfanotrofio Femminile, durante una festa di beneficenza nella sala del teatrino, ragazze delle migliori famiglie meneghine, recitavano testimoniando la loro sensibilità per la povera gente. Tra queste ragazze appariva timida e riservata Teresa Casati, ragazza notata dal Conte Federico Confalonieri, che vedeva in questo un vero sentimento.
Quest’uomo aveva attraversato anni di profonda malinconia fino a sfiorare l’idea del suicidio, e poi si interessò alla causa dell’indipendenza e dell’unità italiana. Si consolavacon belle donne e affermava che non avrebbe mai preso moglie, perché la sua anima apparteneva ad una donna di nome Italia; ma ciò mutò dopo aver conosciuto Teresa. Così il 15 ottobre 1807 Teresa Casati e Federico Confalonieri si sposarono.
Hanno passato i primi anni di matrimonio nella casa di Via Monte di Pietà, nel clima di un’epoca cupa ma sfarzosa. Quella felicità molto accesa, dovuta anche dalla nascita di un bambino, durò poco, poiché un gravissimo lutto dovuto da una grande sbadatezza colpì la famiglia, che perse il bambino solo dopo pochi mesi. Ciò accadde un giorno mentre i coniugi giocavano a lanciarselo nel vuoto finché il bimbo scivolò dalle mani di Teresa e morì. Poco dopo viene a mancare anche il padre. Dopo eventi così luttuosi nacquero tra i coniugi incomprensioni tali da rendere i rapporti difficili.
Durante il periodo napoleonico, a Teresa fu dato il titolo di dama di corte, dove Eugenio Beauharnais coglieva l’occasione per corteggiarla, tentando invano di baciarla e facendosi odiare dal Confalonieri.
In un secondo momento Teresa e suo marito furono sospettati di capeggiare una congiura di donne per assassinare il Beauharnais. Sempre nello stesso periodo Federico riallacciò i rapporti con la Carboneria e la Massoneria Nordica, diventando così un capo indiscusso seguito segretamente dalla moglie, sua seguace e sostenitrice.
Nel 1814 Napoleone veniva sconfitto e in forza della convenzione di Schiarino, i francesi lasciavano l’Italia agli austriaci cosichhé qualche tempo dopo Adam Neipperg giungeva a Milano con le sue truppe per impossessarsi della città e del regno d’Italia.
Il 20 aprile 1814 si costituisce una reggenza provvisoria in attesa di apprendere la sorte che sarebbe stata riconosciuta all’Italia dal congresso di Vienna, nella quale il maggior rappresentante era il Confalonieri. Durante la sua assenza Teresa manteneva i contatti con i più autorevoli liberali lombardi nel suo salotto, dove si parlava di letteratura e dove lei leggeva le lettere del marito. Il 4 maggio 1814 lesse a tutti la lettera del marito che in poche righe diceva che partiva per l’Inghilterra perché gli austriaci erano diventati i nuovi padroni.
Il 16 maggio 1816 partirono diretti per la bassa Italia, passarono per Parma, Bologna, Roma, Napoli e Sicilia.
Successivamente Teresa si impose di raccogliere fondi per creare nuove scuole che si ispirassero ai suoi nuovi metodi pedagogici. L’iniziativa venne ritenuta pericolosa dagli austriaci, tanto che iniziarono le perquisizioni e il 15 maggio 1820 vennero chiusi gli istituti di insegnamento. Teresa a questo punto entrò nella loggia carbonara e il suo salotto divenne un ritrovo segreto dove si scambiavano informazioni e si studiava come sfuggire alla polizia che tuttavia riuscì a scoprirli anche a causa del tradimento di alcuni membri.
Il Confalonieri finì in carcere perché il piano di fuga progettato precedentemente fallì. L’Austria lo accusò di lesa maestà. Teresa era molto preoccupata non tanto perché era in prigione ma quanto per la sua salute incerta.
La situazione precipitò tanto che il Confalonieri venne condananto a morte. Teresa fece di tutto per ottenere la grazia, ottenendo anche di parklare con l'Imperatore, ma senza ottenere quello che voleva. Ma Teresa non si diede per vinta: raccolse trecento firme di personaggi famosi, tra cui Manzoni, il vescovo Nava e l’arcivescovo Gaisruk, contro la sentenza; a Milano si rischiava l’insurrezione. Il fratello di Teresa consegnò la petizione, ma l’imperatore aveva già commutato la condanna a morte in carcere duro prima a Brno e poi allo Spielberg.
Teresa fece di tutto pur di rivedere il marito, con cui manetenne una fitta corrispondenza, ma l'impertaore non si fece impietosire. Teresa muore in Brianza il 26 settembre 1830 a soli quarantatré anni, prima del marito che visse fino al 1846. I loro corpi riposano nel presso il monumentale Mausoleo Casati nel cimitero urbano di Muggiò.
una sera del novembre 1806, pochi giorni dopo aver lasciato il collegio, a Milano, nel Reale Orfanotrofio Femminile, durante una festa di beneficenza nella sala del teatrino, ragazze delle migliori famiglie meneghine, recitavano testimoniando la loro sensibilità per la povera gente. Tra queste ragazze appariva timida e riservata Teresa Casati, ragazza notata dal Conte Federico Confalonieri, che vedeva in questo un vero sentimento.
Quest’uomo aveva attraversato anni di profonda malinconia fino a sfiorare l’idea del suicidio, e poi si interessò alla causa dell’indipendenza e dell’unità italiana. Si consolavacon belle donne e affermava che non avrebbe mai preso moglie, perché la sua anima apparteneva ad una donna di nome Italia; ma ciò mutò dopo aver conosciuto Teresa. Così il 15 ottobre 1807 Teresa Casati e Federico Confalonieri si sposarono.
Hanno passato i primi anni di matrimonio nella casa di Via Monte di Pietà, nel clima di un’epoca cupa ma sfarzosa. Quella felicità molto accesa, dovuta anche dalla nascita di un bambino, durò poco, poiché un gravissimo lutto dovuto da una grande sbadatezza colpì la famiglia, che perse il bambino solo dopo pochi mesi. Ciò accadde un giorno mentre i coniugi giocavano a lanciarselo nel vuoto finché il bimbo scivolò dalle mani di Teresa e morì. Poco dopo viene a mancare anche il padre. Dopo eventi così luttuosi nacquero tra i coniugi incomprensioni tali da rendere i rapporti difficili.
Durante il periodo napoleonico, a Teresa fu dato il titolo di dama di corte, dove Eugenio Beauharnais coglieva l’occasione per corteggiarla, tentando invano di baciarla e facendosi odiare dal Confalonieri.
In un secondo momento Teresa e suo marito furono sospettati di capeggiare una congiura di donne per assassinare il Beauharnais. Sempre nello stesso periodo Federico riallacciò i rapporti con la Carboneria e la Massoneria Nordica, diventando così un capo indiscusso seguito segretamente dalla moglie, sua seguace e sostenitrice.
Nel 1814 Napoleone veniva sconfitto e in forza della convenzione di Schiarino, i francesi lasciavano l’Italia agli austriaci cosichhé qualche tempo dopo Adam Neipperg giungeva a Milano con le sue truppe per impossessarsi della città e del regno d’Italia.
Il 20 aprile 1814 si costituisce una reggenza provvisoria in attesa di apprendere la sorte che sarebbe stata riconosciuta all’Italia dal congresso di Vienna, nella quale il maggior rappresentante era il Confalonieri. Durante la sua assenza Teresa manteneva i contatti con i più autorevoli liberali lombardi nel suo salotto, dove si parlava di letteratura e dove lei leggeva le lettere del marito. Il 4 maggio 1814 lesse a tutti la lettera del marito che in poche righe diceva che partiva per l’Inghilterra perché gli austriaci erano diventati i nuovi padroni.
Il 16 maggio 1816 partirono diretti per la bassa Italia, passarono per Parma, Bologna, Roma, Napoli e Sicilia.
Successivamente Teresa si impose di raccogliere fondi per creare nuove scuole che si ispirassero ai suoi nuovi metodi pedagogici. L’iniziativa venne ritenuta pericolosa dagli austriaci, tanto che iniziarono le perquisizioni e il 15 maggio 1820 vennero chiusi gli istituti di insegnamento. Teresa a questo punto entrò nella loggia carbonara e il suo salotto divenne un ritrovo segreto dove si scambiavano informazioni e si studiava come sfuggire alla polizia che tuttavia riuscì a scoprirli anche a causa del tradimento di alcuni membri.
Il Confalonieri finì in carcere perché il piano di fuga progettato precedentemente fallì. L’Austria lo accusò di lesa maestà. Teresa era molto preoccupata non tanto perché era in prigione ma quanto per la sua salute incerta.
La situazione precipitò tanto che il Confalonieri venne condananto a morte. Teresa fece di tutto per ottenere la grazia, ottenendo anche di parklare con l'Imperatore, ma senza ottenere quello che voleva. Ma Teresa non si diede per vinta: raccolse trecento firme di personaggi famosi, tra cui Manzoni, il vescovo Nava e l’arcivescovo Gaisruk, contro la sentenza; a Milano si rischiava l’insurrezione. Il fratello di Teresa consegnò la petizione, ma l’imperatore aveva già commutato la condanna a morte in carcere duro prima a Brno e poi allo Spielberg.
Teresa fece di tutto pur di rivedere il marito, con cui manetenne una fitta corrispondenza, ma l'impertaore non si fece impietosire. Teresa muore in Brianza il 26 settembre 1830 a soli quarantatré anni, prima del marito che visse fino al 1846. I loro corpi riposano nel presso il monumentale Mausoleo Casati nel cimitero urbano di Muggiò.
BIANCA MILESI la maestra giardiniera dei moti del 1821
Bianca Milesi: la più giovane delle sorelle Milesi. E la più intraprendente. Era nata il 22 maggio 1790. Il padre, Giovan Battista Milesi, e la madre, Elena Marliani, avevano avuto cinque figlie: Antonietta, Francesca, Agostina, Luisa, Bianca. E un maschio, Carlo, che avrebbe sposato Elena Viscontini, sorella di Matilde Dembowski. Tutte queste donne, così come un numero forse insospettabile di altre nobili lombarde, a cominciare da Teresa Confalonieri, sarebbero state le animatrici delle cospirazioni carbonare e antiaustriache a Milano del 1821. Bianca morì l’8 giugno del 1849 dopo aver lottato e perso, con suo marito, la sua ultima sfida: quella contro il colera.
La famiglia di Bianca era di origine bergamasca: era arrivata a Milano intorno alla metà del Settecento per commerciare in ferro, legname e bestiame. Poi aveva investito nell’agricoltura della Bassa.
Bianca studiò in un convento a Firenze, poi in Santa Sofia a Milano e infine in Santo Spirito. Il padre morì già nel 1804. Il sogno della ragazza era dedicarsi allo studio e in particolare alla pittura. Poiché, a differenza di gran parte delle sue compagne, non si accontentava di essere un’artista dilettante, studiò con accanimento, viaggiò all’estero e nel resto d’Italia e trascorse molto tempo a Roma, per apprendere e formarsi alla luce dei “classici”. A Roma conobbe Antonio Canova e fu allieva di Francesco Hayez che in seguito, frequentando il suo salotto, sarebbe stato introdotto nella buona società milanese. Sempre a Roma, Bianca divenne amica di due donne fondamentali per la sua formazione: Sophia Reinhard (1775-1843), una pittrice tedesca colta, seguace di Saint Simon, di forte carattere già decisamente femminista. Di lei possediamo un malinconico autoritratto in abiti rinascimentali. E la scrittrice anglo-irlandese Mary Edgeworth (1767-1849) che non solo si dedicò alla letteratura per l’infanzia e fu una pioniera della pedagogia, ma pubblicò le fondamentaliLetters for Literary Ladies (1795), che iniziano con le celebri e “trasgressive” congratulazioni a un gentiluomo suo amico per la nascita di una figlia femmina.
Saputo del definitivo crollo napoleonico, la Milesi tornò avventurosamente via mare a Milano, dove decise di dedicarsi attivamente alla vita politica cittadina.
Divenne così maestra giardiniera (come la sorella Francesca), ovvero membro dell’equivalente femminile della Carboneria, con tanto di coltello alla giarrettiera. Simile a quello degli uomini il lungo e segreto processo di affiliazione. Analoghi i rischi, se si veniva scoperte, a cominciare dalla detenzione nella fortezza dello Spielberg. L’obbligo era il silenzio. La società segreta di cui facevano parte le giardiniere era quella dei Federati, introdotta dal Piemonte a Milano nel 1820, ma sorta nel 1814. Oggi Bianca è ricordata soprattutto come l’inventrice della carta frastagliata, detta anche cartolina à jour o crittografico della grata, una griglia che si sovrapponeva alle lettere dei cospiratori in modo da lasciar leggere soltanto il messaggio segreto. Ma fece da subito molto di più: con il conte Federico Confalonieri e il conte Giuseppe Pecchio Bianca fondò le Scuole di Mutuo Insegnamento, il cui obiettivo era diffondere una comune coscienza nazionale e culturale tra gli italiani. Le scuole furono subito chiuse anche su pressione della Chiesa che deteneva all’epoca il monopolio dell’istruzione.
Con un carattere fortissimo e una personalità inedita perfino per il gruppo di coraggiose irredentiste lombarde, Bianca, amica di Cristina di Belgioioso, si fece notare anche per il suo aspetto stravagante: a un certo punto si tagliò le trecce, si vestì con abiti di lana scura e prese a girare per Milano con gli scarponi militari, un bastone e il Saggio sulla Tolleranza di Locke sempre sotto il braccio. Non nascondeva di essere femminista e anche questo, nella Milano provinciale di allora, era motivo di scandalo.
Finì che la politica soffocò l’arte. Soprattutto perché fu scoperta: il presunto carbonaro Carlo Castillia la denunciò, sia per il codice cifrato sia perché aveva dipinto il tricolore sullo stendardo degli studenti di Pavia del battaglione Minerva. Fu interrogata più volte, con durezza. Non parlò. Schedata come «rivoluzionaria, caldeggiante in casa Confalonieri il pensiero di aiutare gli insorti e votata alla causa liberale», nel 1822 fuggì all’estero. Soltanto dopo quattro anni e varie peregrinazioni tornò in Italia. Si stabilì a Genova: nel 1825 aveva sposato un medico della città, Carlo Mojon. Non smise mai di dedicarsi alle cause sociali, lavorò negli asili infantili. E continuò a cospirare. La polizia, che la teneva d’occhio, la chiamava: la “giovane energumena”. Divenne amica di Giuseppe Mazzini e la sua casa fu il punto di approdo di molti patrioti lombardi. Dal 1833 si trasferì a Parigi, perché a Genova le era stato impedito di aprire una scuola di ginnastica. Quando seppe della sconfitta della Repubblica romana, nel 1849, a opera proprio dei francesi, prese il lutto.
Pare che al momento della morte fece ancora in tempo a sussurrare: «Dite a mio figlio che ami sempre il suo dovere». E quel dovere era lottare per la libertà.
La famiglia di Bianca era di origine bergamasca: era arrivata a Milano intorno alla metà del Settecento per commerciare in ferro, legname e bestiame. Poi aveva investito nell’agricoltura della Bassa.
Bianca studiò in un convento a Firenze, poi in Santa Sofia a Milano e infine in Santo Spirito. Il padre morì già nel 1804. Il sogno della ragazza era dedicarsi allo studio e in particolare alla pittura. Poiché, a differenza di gran parte delle sue compagne, non si accontentava di essere un’artista dilettante, studiò con accanimento, viaggiò all’estero e nel resto d’Italia e trascorse molto tempo a Roma, per apprendere e formarsi alla luce dei “classici”. A Roma conobbe Antonio Canova e fu allieva di Francesco Hayez che in seguito, frequentando il suo salotto, sarebbe stato introdotto nella buona società milanese. Sempre a Roma, Bianca divenne amica di due donne fondamentali per la sua formazione: Sophia Reinhard (1775-1843), una pittrice tedesca colta, seguace di Saint Simon, di forte carattere già decisamente femminista. Di lei possediamo un malinconico autoritratto in abiti rinascimentali. E la scrittrice anglo-irlandese Mary Edgeworth (1767-1849) che non solo si dedicò alla letteratura per l’infanzia e fu una pioniera della pedagogia, ma pubblicò le fondamentaliLetters for Literary Ladies (1795), che iniziano con le celebri e “trasgressive” congratulazioni a un gentiluomo suo amico per la nascita di una figlia femmina.
Saputo del definitivo crollo napoleonico, la Milesi tornò avventurosamente via mare a Milano, dove decise di dedicarsi attivamente alla vita politica cittadina.
Divenne così maestra giardiniera (come la sorella Francesca), ovvero membro dell’equivalente femminile della Carboneria, con tanto di coltello alla giarrettiera. Simile a quello degli uomini il lungo e segreto processo di affiliazione. Analoghi i rischi, se si veniva scoperte, a cominciare dalla detenzione nella fortezza dello Spielberg. L’obbligo era il silenzio. La società segreta di cui facevano parte le giardiniere era quella dei Federati, introdotta dal Piemonte a Milano nel 1820, ma sorta nel 1814. Oggi Bianca è ricordata soprattutto come l’inventrice della carta frastagliata, detta anche cartolina à jour o crittografico della grata, una griglia che si sovrapponeva alle lettere dei cospiratori in modo da lasciar leggere soltanto il messaggio segreto. Ma fece da subito molto di più: con il conte Federico Confalonieri e il conte Giuseppe Pecchio Bianca fondò le Scuole di Mutuo Insegnamento, il cui obiettivo era diffondere una comune coscienza nazionale e culturale tra gli italiani. Le scuole furono subito chiuse anche su pressione della Chiesa che deteneva all’epoca il monopolio dell’istruzione.
Con un carattere fortissimo e una personalità inedita perfino per il gruppo di coraggiose irredentiste lombarde, Bianca, amica di Cristina di Belgioioso, si fece notare anche per il suo aspetto stravagante: a un certo punto si tagliò le trecce, si vestì con abiti di lana scura e prese a girare per Milano con gli scarponi militari, un bastone e il Saggio sulla Tolleranza di Locke sempre sotto il braccio. Non nascondeva di essere femminista e anche questo, nella Milano provinciale di allora, era motivo di scandalo.
Finì che la politica soffocò l’arte. Soprattutto perché fu scoperta: il presunto carbonaro Carlo Castillia la denunciò, sia per il codice cifrato sia perché aveva dipinto il tricolore sullo stendardo degli studenti di Pavia del battaglione Minerva. Fu interrogata più volte, con durezza. Non parlò. Schedata come «rivoluzionaria, caldeggiante in casa Confalonieri il pensiero di aiutare gli insorti e votata alla causa liberale», nel 1822 fuggì all’estero. Soltanto dopo quattro anni e varie peregrinazioni tornò in Italia. Si stabilì a Genova: nel 1825 aveva sposato un medico della città, Carlo Mojon. Non smise mai di dedicarsi alle cause sociali, lavorò negli asili infantili. E continuò a cospirare. La polizia, che la teneva d’occhio, la chiamava: la “giovane energumena”. Divenne amica di Giuseppe Mazzini e la sua casa fu il punto di approdo di molti patrioti lombardi. Dal 1833 si trasferì a Parigi, perché a Genova le era stato impedito di aprire una scuola di ginnastica. Quando seppe della sconfitta della Repubblica romana, nel 1849, a opera proprio dei francesi, prese il lutto.
Pare che al momento della morte fece ancora in tempo a sussurrare: «Dite a mio figlio che ami sempre il suo dovere». E quel dovere era lottare per la libertà.
Maria Alinda Bonacci Brunamonti
la prima donna italiana a votare (travestita da uomo,nel 1860)
Maria Alinda Bonacci Brunamonti (Perugia, 21 agosto 1841 – Perugia, 3 febbraio 1903) è stata una poetessa italiana.Fu la primogenita di Teresa Tarulli di Matelica e di Gratiliano Bonacci, nativo di Recanati, insegnante di retorica nel perugino Collegio della Sapienza, autore delle Nozioni fondamentali di estetica, il quale curò personalmente la sua istruzione di indirizzo classico.Con l'incoraggiamento della madre, devota cattolica, iniziò giovanissima a comporre versi di carattere religioso, dati alle stampe nel 1856 con il titolo Canti e dedicati a Pio IX. Nel 1854 la famiglia fu costretta a lasciare Perugia per motivi politici, trasferendosi prima a Foligno e poi a Recanati: in questo periodo compose versi di ispirazione leopardiana, i Versi campestri, pubblicati nel 1876. La ripresa del movimento risorgimentale e la repressione pontificia della rivolta di Perugia del 20 giugno 1859 le ispirò i versi patriottici e anti-pontifici dei Canti nazionali, editi a Recanati nel 1860. In quell'anno, la Bonacci fu l'unica donna ammessa eccezionalmente a votare per il plebiscito di conferma dell'annessione delle Marche e dell'Umbria al Piemonte.
Dal 1868, dopo il matrimonio con Pietro Brunamonti, di Trevi, docente di filosofia del diritto nell'Università di Perugia - da cui ebbe due figli, Beatrice, nata il 2 aprile 1871, e Fausto, morto a soli cinque anni il 25 giugno 1878 - stabilì la sua residenza a Perugia. Ebbe l'amicizia di intellettuali italiani, in particolare di Giacomo Zanella, di Andrea Maffei e di Antonio Stoppani, con il quale studiò scienze naturali.
Influenzate dallo Zanella sono le successive poesie, di carattere didascalico e con accenti religiosi: Nuovi canti (1887), Flora (1898), appesantite «da un'intonazione etico-riflessiva irrimediabilmente provinciale». Migliori si rivelano i Discorsi d'arte (1898) e i Ricordi di viaggio, pubblicati postumi.
Un ictus, che la colpì nel 1897, le impedì di scrivere fino alla morte, avvenuta nel 1903.
Dal 1868, dopo il matrimonio con Pietro Brunamonti, di Trevi, docente di filosofia del diritto nell'Università di Perugia - da cui ebbe due figli, Beatrice, nata il 2 aprile 1871, e Fausto, morto a soli cinque anni il 25 giugno 1878 - stabilì la sua residenza a Perugia. Ebbe l'amicizia di intellettuali italiani, in particolare di Giacomo Zanella, di Andrea Maffei e di Antonio Stoppani, con il quale studiò scienze naturali.
Influenzate dallo Zanella sono le successive poesie, di carattere didascalico e con accenti religiosi: Nuovi canti (1887), Flora (1898), appesantite «da un'intonazione etico-riflessiva irrimediabilmente provinciale». Migliori si rivelano i Discorsi d'arte (1898) e i Ricordi di viaggio, pubblicati postumi.
Un ictus, che la colpì nel 1897, le impedì di scrivere fino alla morte, avvenuta nel 1903.
Maria Oliverio
Maria Oliverio, detta Ciccilla (Casole Bruzio, 30 agosto 1841 – Fenestrelle, 1879 circa), è stata una brigante italiana, nella banda di Pietro Monaco, suo marito, tra il maggio 1862 e il febbraio 1864, operante in Calabria all'indomani della proclamazione del Regno d'Italia di Vittorio Emanuele II.
Maria Oliverio nasce a Casole Bruzio il 30 agosto 1841 da Biaggio e Scarcella Giuseppina. All'età di 17 anni sposa, il 3 ottobre 1858, Pietro Monaco e va a vivere nella frazione Macchia del comune di Spezzano Piccolo[1]. Pur non avendo commesso alcun reato in precedenza e senza alcun motivo venne arrestata, nel marzo 1862, assieme alla sorella Teresa dal Maggiore Pietro Fumel e rinchiusa nelle carceri del convento di San Domenico (oggi ne restano solo i sotterranei e un tratto di muro) a Celico, per fare in modo che il marito Pietro Monaco si costituisse. Stette in quelle carceri per due mesi. Uscita di prigione, allora ventenne, dopo aver ucciso, in modo orribile, la stessa sorella per calunnia, si unì alla banda di briganti del marito. Venne accusata di innumerevoli reati: sequestri, rapine violente e a mano armata (ovvero grassazioni), furti, incendi, omicidi, uccisioni di animali domestici; in tutto 32 solo i capi di imputazione elencati nel processo a suo carico che si tenne a Catanzaro nel febbraio 1864 all'indomani del suo arresto[2]. Di tutti i reati ella confessò solo l'omicidio della sorella, per tutti gli altri disse di esservi stata costretta.
Con la banda di Pietro Monaco la Oliverio fu protagonista di diversi atti di brigantaggio: il più noto fu il sequestro di diversi nobili di Acri avvenuto il 31 agosto 1863. Tra questi nobili c'erano il fratello e il padre del patriota ed eroe della spedizione di Sapri, Giovan Battista Falcone, e del Maggiore della Guardia Nazionale Raffaele Falcone (detto "terrore dei briganti"), Ferdinando Spezzano (che venne subito ucciso) di una nota famiglia di Acri, due preti e il Vescovo di Tropea. Un'impresa che destò molto scalpore e paura per la neonata Italia, un sequestro di simboli più che di persone.
Il 24 dicembre 1863, la sera della vigilia di Natale, dopo il tradizionale cenone[3], il Monaco venne ucciso dal suo braccio destro Salvatore De Marco, alias Marchetta, con la complicità di Vincenzo Marrazzo e Salvatore Celestino, alias Jurillu. Il rifugio della banda era nella valle di Jumiciello (un subaffluente del fiume Crati nel comune di Pedace), venne ucciso dentro una casella, ovvero essiccatoio per le castagne (tuttora esistente anche se diroccata), dove si era appena appisolato, la Oliviero era con lui. In quella occasione, come descrive Maria Oliviero nel suo interrogatorio, la pallottola che colpì Monaco la ferì ad un braccio. Secondo un poeta e giornalista dell'epoca, Luigi Stocchi, cercò di inseguire gli assassini, poi tornò dal cadavere del marito e lo decapitò per evitare che a farlo fossero i soldati piemontesi[4]: ne bruciò la testa in un grande castagno (ancora lì), nei pressi del luogo dell’agguato e fuggì in Sila assieme al fratello Raffaele, al cugino del marito Antonio e al resto della banda rifugiatasi nelle vicine grotte (anche quelle ancora esistenti).
Per 47 giorni sfuggì alla caccia spietata della forza pubblica, con la ferita mal medicata al braccio che teneva stretto al collo. Alla fine fu catturata nel febbraio 1864, in una grotta lungo il fiume Neto in località Bosco di Caccuri nel comune di Santa Severina (oggi paesi della provincia di Crotone), insieme ad Antonio Monaco e alcuni uomini della banda Palma (Pasquale Gagliardi e Ludovico Russo). La cattura avvenne a seguito di uno scontro a fuoco, nel corso del quale rimasero uccisi due bersaglieri (Giovanni Spagnolini di Fara Novarese e Francesco Agnolini di Cittaducale) e uno squadrigliere del Barone Barracco (Michele Corvino). Inoltre venne ucciso e poi decapitato Antonio Monaco[5]. Venne ucciso dopo la cattura sebbene fosse solo ferito anche Pasquale Gagliardi, mentre Ludovico Russo riuscì miracolosamente a fuggire nonostante fosse ferito. Si costituirà a San Giovanni in Fiore qualche giorno dopo. Alcuni riferiscono anche della presenza del fratello di Maria Oliviero, Raffaele, alias Niurone (che sopravvisse per diversi anni aggregato alla banda di Pietro Bianco, nelle foreste del Gariglionenella Sila Catanzarese).
Processata a Catanzaro dal Tribunale di Guerra della Calabria Ultra fu condannata a morte. Fu l'unica brigantessa italiana alla quale venne data una tale pena, che fu poi commutata dal re in ergastolo scontato presso la fortezza di Fenestrelle, in Val Chisone, dove si spense quindici anni dopo.
Nel 1864, sul giornale L'Indipendente, il direttore Alexandre Dumas scrisse un racconto in sette capitoli dedicati alla brigantessa e al marito Pietro Monaco dal titolo "Pietro Monaco sua moglie Maria Oliverio e i loro complici".
Con la banda di Pietro Monaco la Oliverio fu protagonista di diversi atti di brigantaggio: il più noto fu il sequestro di diversi nobili di Acri avvenuto il 31 agosto 1863. Tra questi nobili c'erano il fratello e il padre del patriota ed eroe della spedizione di Sapri, Giovan Battista Falcone, e del Maggiore della Guardia Nazionale Raffaele Falcone (detto "terrore dei briganti"), Ferdinando Spezzano (che venne subito ucciso) di una nota famiglia di Acri, due preti e il Vescovo di Tropea. Un'impresa che destò molto scalpore e paura per la neonata Italia, un sequestro di simboli più che di persone.
Il 24 dicembre 1863, la sera della vigilia di Natale, dopo il tradizionale cenone[3], il Monaco venne ucciso dal suo braccio destro Salvatore De Marco, alias Marchetta, con la complicità di Vincenzo Marrazzo e Salvatore Celestino, alias Jurillu. Il rifugio della banda era nella valle di Jumiciello (un subaffluente del fiume Crati nel comune di Pedace), venne ucciso dentro una casella, ovvero essiccatoio per le castagne (tuttora esistente anche se diroccata), dove si era appena appisolato, la Oliviero era con lui. In quella occasione, come descrive Maria Oliviero nel suo interrogatorio, la pallottola che colpì Monaco la ferì ad un braccio. Secondo un poeta e giornalista dell'epoca, Luigi Stocchi, cercò di inseguire gli assassini, poi tornò dal cadavere del marito e lo decapitò per evitare che a farlo fossero i soldati piemontesi[4]: ne bruciò la testa in un grande castagno (ancora lì), nei pressi del luogo dell’agguato e fuggì in Sila assieme al fratello Raffaele, al cugino del marito Antonio e al resto della banda rifugiatasi nelle vicine grotte (anche quelle ancora esistenti).
Per 47 giorni sfuggì alla caccia spietata della forza pubblica, con la ferita mal medicata al braccio che teneva stretto al collo. Alla fine fu catturata nel febbraio 1864, in una grotta lungo il fiume Neto in località Bosco di Caccuri nel comune di Santa Severina (oggi paesi della provincia di Crotone), insieme ad Antonio Monaco e alcuni uomini della banda Palma (Pasquale Gagliardi e Ludovico Russo). La cattura avvenne a seguito di uno scontro a fuoco, nel corso del quale rimasero uccisi due bersaglieri (Giovanni Spagnolini di Fara Novarese e Francesco Agnolini di Cittaducale) e uno squadrigliere del Barone Barracco (Michele Corvino). Inoltre venne ucciso e poi decapitato Antonio Monaco[5]. Venne ucciso dopo la cattura sebbene fosse solo ferito anche Pasquale Gagliardi, mentre Ludovico Russo riuscì miracolosamente a fuggire nonostante fosse ferito. Si costituirà a San Giovanni in Fiore qualche giorno dopo. Alcuni riferiscono anche della presenza del fratello di Maria Oliviero, Raffaele, alias Niurone (che sopravvisse per diversi anni aggregato alla banda di Pietro Bianco, nelle foreste del Gariglionenella Sila Catanzarese).
Processata a Catanzaro dal Tribunale di Guerra della Calabria Ultra fu condannata a morte. Fu l'unica brigantessa italiana alla quale venne data una tale pena, che fu poi commutata dal re in ergastolo scontato presso la fortezza di Fenestrelle, in Val Chisone, dove si spense quindici anni dopo.
Nel 1864, sul giornale L'Indipendente, il direttore Alexandre Dumas scrisse un racconto in sette capitoli dedicati alla brigantessa e al marito Pietro Monaco dal titolo "Pietro Monaco sua moglie Maria Oliverio e i loro complici".
La monaca di Napoli
Enrichetta Caracciolo (1821-1901),Una giovane bella, intelligente, romantica anelante alla vita e all’amore ha la somma sfortuna di nascere e vivere a Napoli durante l’ultimo ottuso regime dei Borboni sotto la tirannica alleanza tra trono e altare. La morte inaspettata del padre Fabio Caracciolo, un maresciallo borbonico discendente dei principi di Forino, e le nuove nozze a Reggio della madre, Teresa Cutelli gentildonna di piccola nobiltà palermitana, lasceranno la fanciulla, quinta di sette figlie, senza altra scelta che accettare, diciannovenne, nel 1840 la vita claustrale come novizia del convento benedettino di San Gregorio Armeno a Napoli. Presi i voti nel 1841, è soprattutto la grettezza di consorelle semianalfabete a rendere il convento una tomba da dove pensare di evadere a tutti i costi.Per ottenere lo scioglimento dai voti o quanto meno una dispensa per motivi di salute, nel 1846 Enrichetta manda suppliche a Pio IX, tutte purtroppo destinate a naufragare per l’ostinata opposizione del giovane nuovo arcivescovo di Napoli Sisto Riario Sforza (1810-1877). Forse irritato dal malcelato disprezzo di una donna colta e mai sottomessa, in grado di cogliere in lui vanità e ignoranza, il porporato ne diverrà il persecutore ossessionato fino alla crudeltà mentale. In convento la Caracciolo fa la sagrestana, respinge le proposte oltraggiose di preti e nel 1848 legge a voce alta la stampa liberale, diventando anticlericale e repubblicana. Sull’onda della repressione borbonica il 15 maggio 1848 incenerisce le sue memorie, temendo ripercussioni per sé e la sua famiglia. Autorizzata dal papa a trasferirsi nel Conservatorio di Costantinopoli, Riario Sforza le impone per ripicca di lasciare in convento le argenterie e le pietre preziose, mai più recuperate, eredità delle zie monache. Anche là avrà vita difficile: la badessa infatti le sequestra i libri tra cui scritti di Cantù, Tommaseo e Manzoni, le impedisce suonare al pianoforte i brani di Rossini, negandole la facoltà di scrivere lettere (ma troverà il mezzo di eludere il divieto nascondendo le missive nella biancheria da lavare) e di tenere un diario. Alla perquisizione subita nel 1849 sfuggono «un fascio di carte rivoluzionarie in cifra, un pugnale ed una pistola» affidatele da un cognato cospiratore. Con il pretesto di alleviare i suoi cronici disturbi nervosi, Enrichetta può uscire finalmente con la madre per curarsi con i bagni, ma nel 1850 Riario Sforza non solo le nega una nuova licenza, ma la priva dell’assegno dei frutti della sua dote di monaca. Complice la madre, lascia il conservatorio. Sapendo che sul suo capo pende un ordine d’arresto, si reca a Capua, ma il vescovo Serra di Cassano che la protegge muore poco dopo.Con l’aiuto dell’amico sacerdote Spaccapietra, ottiene il permesso di abitare con la madre e riavere i frutti della dote, ma nel 1851 ancora una volta Riario Sforza la fa arrestare mentre è a casa di una sorella e condurre nel ritiro di Mondragone dove rifuta il cibo e tenta il suicidio. Segue un anno di isolamento, le si impedisce persino di vedere la madre morente. Con il permesso di fare bagni curativi a Castellammare, concessole dalla Sacra Congregazione dei Vescovi che non condivideva il comportamento persecutorio di Riario Sforza, Enrichetta entra a tutti gli effetti nella cospirazione antiborbonica, facendo clandestinamente ritorno a Napoli dove cambia in sei anni 18 abitazioni e 32 donne di servizio e adotta altre minuziose contromisure per depistare la polizia. Il 7 settembre 1860, Enrichetta può stringere la mano a Garibaldi mentre assiste in Duomo alla messa di ringraziamento per la fuga di Franceschiello. Lo stesso giorno lei depone sull’altare il suo velo nero di monaca. Le nozze di rito evangelico con il garibaldino napoletano di origine tedesca Don Giovanni Greuther dei Duchi di Santa Severina inaugurano la sua seconda vita. Nonostante il grande impegno politico e civile per i diritti femminili, l’adesione alla massoneria a molte altre associazioni, il lavoro giornalistico (fu corrispondente de La rivista partenopea di Napoli, La Tribuna di Salerno e Il Nomade di Palermo) e l’attività letteraria (dopo le memorie pubblicherà vari scritti tra cui nel 1866,Un delitto impunito: fatto storico del 1838. Dramma in 5 atti e Proclama alle Donne d’Italia, la raccolta di poesie satiriche contro le superstizioni, I miracoli ,1874) non avrà mai alcun riconoscimento ufficiale del parte del governo italiano. Muore, ormai del tutto dimenticata, all’alba del nuovo secolo.
Antonietta De Pace
Antonietta De Pace nacque il 2 febbraio 1818 a Gallipoli, in provincia di Lecce, da Gregorio, un banchiere napoletano, e da Luisa Rocci Cerasoli, una nobildonna d’origine spagnola i cui fratelli avevano partecipato attivamente alla Repubblica napoletana del 1799.
La sua educazione fu affidata allo zio paterno, il canonico e astronomo Antonio De Pace, che aveva fondato a Gallipoli, nel 1813, una vendita carbonara.
Ad otto anni Antonietta rimase orfana del padre, morto in circostanze misteriose, probabilmente avvelenato dal suo segretario particolare, che voleva impossessarsi del suo patrimonio. La vedova fu confinata nella villa di Camerelle, mentre Antonietta, insieme alle sorelle Chiara, Carlotta e Rosa, fu rinchiusa nel monastero delle clarisse di Gallipoli, la cui badessa apparteneva alla famiglia De Pace.
Delle quattro sorelle minorenni, private della legittima eredità, la più grande, Chiara sposò lo zio Stanislao De Pace, Carlotta morì tisica, Rosa sposò Epaminonda Valentino e condusse nella sua casa Antonietta. Patriota napoletano, figlio di Cristina Chiarizia, che si era distinta durante le vicende rivoluzionarie del 1799, collaboratore di Poerio, Conforti e Pepe, Epaminonda, tesseva le fila della corrispondenza politica tra Napoli e la Terra d’Otranto. Insieme al cognato, Antonietta entrò a far parte della Giovine Italia. "Svelta, intelligente, ardita e prudente insieme, dimenticò il mondo femminile, e tutta l’anima versò nel proposito di concorrere a liberare la patria dalla servitù" (B.Marciano). In quel periodo Antonietta fu una valida collaboratrice del Valentino, che nelle sue lunghe assenze la lasciava depositaria di ogni segreto; la giovane donna riceveva i corrieri da Lecce da Brindisi o da Taranto. Prese attivamente parte alla preparazione, in Terra d’Otranto, dei moti del 1848; il quindici maggio di quell’anno era a Napoli, dove, nelle barricate di via Toledo, il Valentino. combatté accanto a Settembrini. Arrestato insieme al duca Sigismondo Castromediano e ad altri patrioti salentini, Valentino morì in carcere a Lecce, a soli 38 anni. Dopo la fine prematura del cognato Antonietta lasciò Gallipoli per andare a vivere a Napoli con la sorella Rosa e i nipoti.
La sua prima preoccupazione fu quella di riannodare tutte le relazioni di Epaminonda, sia con i patrioti che erano ancora in libertà, sia con quelli prigionieri o in esilio. Per questo motivo la De Pace conobbe personalmente Antonietta Poerio, zia di Carlo e Alessandro, l’inglese Pandola, che aveva abbracciato la causa italiana, Raffaella Faucitano, moglie di Luigi Settembrini, Alina Perret, moglie di Filippo Agresti, la sorella di Antonio Leipnecher, Costanza, e Nicoletta Leanza, figlia del detenuto politico Luigi, che sarebbe stata processata nel 1854.
Inoltre Antonietta entrò in contatto con il console inglese Palmerston e stabilì collegamenti con l’ambasciata sarda, dove si procurava i giornali che si pubblicavano nello Stato sabaudo, come l’Opinione di Torino e il Corriere Mercantile di Genova. Collaborò con il comitato napoletano della Giovine Italia, presieduto dall’avvocato tarantino Nicola Mignogna e nel 1849 fondò un Circolo femminile, composto prevalentemente da donne di estrazione nobile o alto borghese, i cui parenti si trovavano nelle carceri borboniche. Antonietta seguì con attenzione anche la famosa causa "dei Quarantadue"; il compito delle donne era quello far da tramite tra i detenuti politici e i loro parenti, di far pervenire nelle carceri viveri e altri mezzi di sussistenza, lettere e informazioni politiche. Antonietta si recava personalmente al carcere di Procida. Dichiarandosi parente del detenuto Schiavone e fingendo un prossimo matrimonio con un altro recluso, Aniello Ventre, ottenne il permesso di occuparsi della loro biancheria, riuscendo in tal modo a ricevere dai patrioti in carcere importanti comunicazioni. Grazie all’aiuto di Luigi Sacco, cameriere sulle navi che navigavano periodicamente lungo la tratta Marsiglia – Genova – Napoli, la donna inviava le preziose informazioni a Nicotera, che si trovava a Genova; di lì queste giungevano a Lugano e poi a Londra dove risiedeva Mazzini. Tramite Antonietta Poerio, la De Pace teneva vive le relazioni con i condannati di Montesarchio e Montefusco, e con l’aiuto di Alina Agresti e della Settembrini, con i reclusi del carcere di Santo Stefano.
Oltre a dirigere il Circolo femminile, e il successivo Comitato politico femminile, attivo negli anni 1849-1855, Antonietta collaborò ad associazioni patriottiche meridionali quali l’Unità d’Italia (1848), la Setta carbonico - militare (1851), il Comitato segreto napoletano (1855), guidato da Mignogna, che propugnavano l’unificazione dei numerosi movimenti politici del Meridione sotto l’egida repubblicana. A causa della sua attività eversiva la donna era costretta a cambiare spesso abitazione, sia per non coinvolgere la sorella Rosa, sia per depistare la polizia borbonica. Lasciata la casa della sorella, si ritirò inizialmente nel convento di San Paolo in qualità di corista.
Nel 1854, per avere maggiore libertà di contatto con gli agenti della Giovine Italia, mostrando la necessità di "fare dei bagni", ottenne dalla superiora del convento il permesso di recarsi a casa di Caterina Valentino (sorella del defunto Epaminonda), che sosteneva le sue iniziative..
Lì fu arrestata il 26 agosto 1855 dalla polizia borbonica: pochi giorni prima era stato arrestato anche Nicola Mignogna, a causa del tradimento di Domenico Francesco Pierro, un infiltrato della polizia borbonica.
Al momento dell’arresto Antonietta "tolse dal petto due proclami di Mazzini, ne fece una pillola, poiché Mazzini usava la carta velina, e in faccia a loro li inghiottì", dicendo ai poliziotti che si trattava di un medicinale. Fu condotta al commissariato di polizia di Piazza Mercato, dove cominciava il fondaco del Carminiello tagliato dall’opera di Risanamento, che porta oggi il suo nome. Fu tenuta dal commissario Campagna, "fido servitore del dispotismo" in una stanzetta, per circa quindici giorni, senza potersi mai né distendere su un letto, né lavare, subendo interrogatori nel cuore della notte. Le accuse di cospirazione erano suffragate dal fatto che, pur avendo Antonietta distrutto la corrispondenza più pericolosa, nella sua cella del convento di San Paolo erano state rinvenute lettere che nel loro frasario facevano pensare a documenti politici cifrati, cosa che in effetti erano. Ma Antonietta fu sempre particolarmente abile nel sostenere gli interrogatori, tanto che non ne emersero prove vere e proprie delle sue attività cospirative. Uscita dal commissariato di Piazza Mercato, fu condotta nel carcere di S. Maria ad Agnone, retto dalle Suore di carità, dove fu reclusa per diciotto mesi; lasciò la prigione per recarsi alle udienze presso Castelcapuano per ben quarantasei volte.
Durante il lungo processo ebbe il solo privilegio di stare in una stanza da sola, mentre le altre detenute - prostitute, ladre, assassine - dormivano nei "cameroni". Antonietta era chiamata "la signorina", perché si trovava in carcere per "costituzione", ossia era una prigioniera di Stato. L’accusa muoveva dalla convinzione dell’esistenza di una cospirazione repubblicana guidata dal Mazzini. I proclami sequestrati al Mignogna e le lettere di Antonietta erano il corpo del reato. La difesa era rappresentata da prestigiosi avvocati napoletani: Castriota, Longo, Lauria e Pessina. Nonostante le confessioni del traditore Pierro, Mignogna tacque e Antonietta seppe magistralmente difendersi dalle accuse della polizia.
Il procuratore generale Nicoletti aveva chiesto la condanna a morte per Antonietta, ma poiché la giuria si espresse a parità di voti, tre contro e tre a favore, la donna fu assolta. "L’incertezza e il dubbio erano penetrati nell’animo dei giudici, l’opinione pubblica dichiarava il processo un’infamia….sul governo cadde il discredito delle potenze estere e l’anno successivo l’Inghilterra e la Francia ritirarono i loro ambasciatori lasciando a Napoli semplici agenti consolari" Il processo fece molto scalpore, perché l’imputato era una donna e, per giunta, appartenente all’alta borghesia. Vi partecipò sempre una gran folla, tra cui gli ambasciatori inglese, francese e della Stato sabaudo. Le corrispondenze dei giornali dell’epoca, tra cui l’Opinione di Torino, il Corriere Mercantile di Genova, il Journal des debats e il Times, erano tutte a favore dell’imputata.
Secondo la prassi giudiziaria dell’epoca Antonietta, libera, fu posta per un certo numero di anni sotto la tutela di un parente, il cugino Gennaro Rossi, barone di Capranica. Presso di lui, al numero 4 di Vico Storto Purgatorio ad Arco in Napoli, Antonietta visse fino al 1859, strettamente sorvegliata dalla polizia. Ma non abbandonò la sua attività di cospiratrice: fondò a Napoli un Comitato politico mazziniano, di cui facevano parte Antonietta Poerio, Raffaella Faucitano, e Alina Perret.
Sotto la guida di Antonietta, le donne, che si riunivano nella Villa Poerio in via San Nicola a Nilo, stabilirono nuovi contatti con il comitato mazziniano di Genova.
Nell’ottobre del 1858 Antonietta incontrò Beniamino Marciano, un giovane prete liberale di Striano, che era venuto ad abitare nello stesso edificio in cui risiedeva Antonietta. Tra i due nacque subito un intenso rapporto, sul piano sentimentale e politico; ma si sposarono solo nel 1876, quando Antonietta aveva già 58 anni. Beniamino divenne il segretario del comitato femminile; poi, insieme, si adoperarono per favorire l’impresa garibaldina. Quando, il 9 gennaio 1859, il Re Vittorio Emanuele II pronunziò le note parole "il nostro cuore non può rimanere insensibile al grido di dolore che giunge da ogni parte d’Italia…"Antonietta abbandonò ogni riserva e, lasciata la casa del cugino, si stabilì clandestinamente in via S. Giuseppe de Nudi, dove si raccoglievano sospettati e perseguitati politici. Per sfuggire alla polizia aveva studiato con cura le chiese napoletane dotate di una doppia uscita: entrata da una porta, usciva dall’altra! Si recava a casa della Poerio, dell’Agresti, al consolato sardo.
Divenne il tramite tra il Comitato napoletano e quello salernitano, che aveva sede nella casa dell’avvocato Nicola Ferretti. Lì giunse Garibaldi il 6 settembre 1860, con soli ventotto uomini. Il 7 settembre Garibaldi entrava trionfalmente a Napoli con i ventotto ufficiali e due donne, Emma Ferretti e Antonietta De Pace, vestita con i colori della bandiera italiana. A Beniamino Marciano fu affidato il comando ad interim della provincia di Salerno. Garibaldi affidò ad Antonietta la guida dell’ospedale del Gesù, mentre la direzione di tutti gli ospedali napoletani era affidata a Jessie White Mario. Garibaldi le assegnò, inoltre, una pensione di "venticinque ducati al mese pei danni e per le sofferenze patite per la causa della libertà"
Recatasi a Torino per i funerali di Cavour, Antonietta fu accolta con grandi onori dai patrioti meridionali che sedevano nel Parlamento italiano. negli anni successivi si batté per l’annessione di Roma al nuovo Stato, fondando a Napoli un Comitato di donne per Roma capitale, di cui facevano parte Alina Agresti, Luisa Papa, Enrichetta Di Lorenzo e Teodora Muller. Garibaldi scrisse al comitato napoletano, che gli aveva inviato del denaro "…Voi donne interpreti della divinità presso l’uomo molto già avete fatto per l’Italia, e molto ancora dovete operare per l’avvenire. Molto confido nelle donne di Napoli" . Per la sua attività a favore dell’annessione di Roma, Antonietta fu arrestata dalla polizia pontificia, mentre in treno si recava da Napoli a Firenze, dove il Marciano dirigeva il giornale l’Italia. Antonietta doveva presentare al governo italiano una relazione circa la possibilità di organizzare una spedizione militare di volontari guidata da Nicotera, per penetrare nell’agro romano da Ceprano. Fu rilasciata per le proteste del governo sabaudo e grazie alla sua abilità nel distruggere le carte compromettenti che portava con sé.
Dopo un periodo di depressione, dovuto alle alterne vicende politiche, e alla morte del nipote Francesco Valentino, avvenuta in battaglia a Bezzecca, Antonietta riprese la sua abituale vitalità, quando, il 20 settembre 1870, i soldati italiani entrarono a Roma. Intanto a Napoli, il progressista Imbriani, eletto sindaco, promosse importanti riforme nella pubblica istruzione, a cui si dette un’impostazione laica. Ad Antonietta fu affidata l’ispezione delle scuole della sezione Avvocata.
Si dedicò così all’attività educativa insieme al marito, assessore alla Pubblica Istruzione di Napoli. La malattia di lui, il suicidio del cognato Peppino Marciano, nel 1881, la morte di Caterina Valentino, provocarono un nuovo esaurimento nervoso ad Antonietta, che per distrarsi iniziò a viaggiare. Visitò col marito Roma, Firenze, Torino e Milano e tornò a Gallipoli, dopo trentaquattro anni di assenza. Si stabilì per un lungo periodo a Castellammare di Stabia, dove Beniamino Marciano dirigeva l’"Ateneo"; poi si recò a Striano, paese natio del Marciano. Il 1° maggio 1894 il municipio di Striano deliberò di intitolare ai due eroi due strade del paese.
Dopo essersi rifugiati in Puglia per sfuggire all’epidemia di colera del 1884, i due tornarono a stabilirsi a Napoli, a Piazza San Gaetano, dove era la sede dell’Istituto e del Convitto fondati dal Marciano. Antonietta si dedicò all’educazione dei fanciulli, che esortava dicendo: "noi abbiamo fatto l’Italia, voi dovete conservarla, lavorando a farla prospera e grande
Racconta Beniamino Marciano che il 3 aprile 1893 Antonietta, costretta da tempo a letto da una forte bronchite, chiese di bere dello champagne, che fu reperito con difficoltà, perché era lunedì in albis; "trovato il vino ella mi disse volerlo bere nel bicchiere a calice e subito la contentai: ne bevve avidamente un primo e dopo un secondo bicchiere…Ma in quello stato in cui ella era il vino la eccitò soverchiamente e si dette a discorrere" Poi lui le chiese: " Antonietta, mi ami?". Lei sorrise e a stento si udì la risposta: "e me lo chiedi?" Furono le sue ultime parole: Antonietta morì la mattina del giorno successivo, a 76 anni.
Ai suoi funerali parteciparono, con le fanciulle e le maestre delle scuole, le associazioni operaie, garibaldine e numerosi rappresentanti delle istituzioni. Il comune di Gallipoli chiese al Marciano il ritratto ad olio di Antonietta, dipinto dal Sogliano (ora esposto al Museo civico della città, accanto ai ritratti del nipote Francesco Valentino e di Antonio De Pace, zio di Antonietta ed insigne astronomo). Lo stesso municipio intitolò alla patriota una via cittadina. Nel 1959 le venne intitolato l’Istituto Professionale Femminile di Lecce. Silvio Spaventa le aveva detto, un giorno: "Signorina nei vostri costituti siete stata un uomo. Così molti uomini nei loro non si fossero dimostrati donne!"
La sua educazione fu affidata allo zio paterno, il canonico e astronomo Antonio De Pace, che aveva fondato a Gallipoli, nel 1813, una vendita carbonara.
Ad otto anni Antonietta rimase orfana del padre, morto in circostanze misteriose, probabilmente avvelenato dal suo segretario particolare, che voleva impossessarsi del suo patrimonio. La vedova fu confinata nella villa di Camerelle, mentre Antonietta, insieme alle sorelle Chiara, Carlotta e Rosa, fu rinchiusa nel monastero delle clarisse di Gallipoli, la cui badessa apparteneva alla famiglia De Pace.
Delle quattro sorelle minorenni, private della legittima eredità, la più grande, Chiara sposò lo zio Stanislao De Pace, Carlotta morì tisica, Rosa sposò Epaminonda Valentino e condusse nella sua casa Antonietta. Patriota napoletano, figlio di Cristina Chiarizia, che si era distinta durante le vicende rivoluzionarie del 1799, collaboratore di Poerio, Conforti e Pepe, Epaminonda, tesseva le fila della corrispondenza politica tra Napoli e la Terra d’Otranto. Insieme al cognato, Antonietta entrò a far parte della Giovine Italia. "Svelta, intelligente, ardita e prudente insieme, dimenticò il mondo femminile, e tutta l’anima versò nel proposito di concorrere a liberare la patria dalla servitù" (B.Marciano). In quel periodo Antonietta fu una valida collaboratrice del Valentino, che nelle sue lunghe assenze la lasciava depositaria di ogni segreto; la giovane donna riceveva i corrieri da Lecce da Brindisi o da Taranto. Prese attivamente parte alla preparazione, in Terra d’Otranto, dei moti del 1848; il quindici maggio di quell’anno era a Napoli, dove, nelle barricate di via Toledo, il Valentino. combatté accanto a Settembrini. Arrestato insieme al duca Sigismondo Castromediano e ad altri patrioti salentini, Valentino morì in carcere a Lecce, a soli 38 anni. Dopo la fine prematura del cognato Antonietta lasciò Gallipoli per andare a vivere a Napoli con la sorella Rosa e i nipoti.
La sua prima preoccupazione fu quella di riannodare tutte le relazioni di Epaminonda, sia con i patrioti che erano ancora in libertà, sia con quelli prigionieri o in esilio. Per questo motivo la De Pace conobbe personalmente Antonietta Poerio, zia di Carlo e Alessandro, l’inglese Pandola, che aveva abbracciato la causa italiana, Raffaella Faucitano, moglie di Luigi Settembrini, Alina Perret, moglie di Filippo Agresti, la sorella di Antonio Leipnecher, Costanza, e Nicoletta Leanza, figlia del detenuto politico Luigi, che sarebbe stata processata nel 1854.
Inoltre Antonietta entrò in contatto con il console inglese Palmerston e stabilì collegamenti con l’ambasciata sarda, dove si procurava i giornali che si pubblicavano nello Stato sabaudo, come l’Opinione di Torino e il Corriere Mercantile di Genova. Collaborò con il comitato napoletano della Giovine Italia, presieduto dall’avvocato tarantino Nicola Mignogna e nel 1849 fondò un Circolo femminile, composto prevalentemente da donne di estrazione nobile o alto borghese, i cui parenti si trovavano nelle carceri borboniche. Antonietta seguì con attenzione anche la famosa causa "dei Quarantadue"; il compito delle donne era quello far da tramite tra i detenuti politici e i loro parenti, di far pervenire nelle carceri viveri e altri mezzi di sussistenza, lettere e informazioni politiche. Antonietta si recava personalmente al carcere di Procida. Dichiarandosi parente del detenuto Schiavone e fingendo un prossimo matrimonio con un altro recluso, Aniello Ventre, ottenne il permesso di occuparsi della loro biancheria, riuscendo in tal modo a ricevere dai patrioti in carcere importanti comunicazioni. Grazie all’aiuto di Luigi Sacco, cameriere sulle navi che navigavano periodicamente lungo la tratta Marsiglia – Genova – Napoli, la donna inviava le preziose informazioni a Nicotera, che si trovava a Genova; di lì queste giungevano a Lugano e poi a Londra dove risiedeva Mazzini. Tramite Antonietta Poerio, la De Pace teneva vive le relazioni con i condannati di Montesarchio e Montefusco, e con l’aiuto di Alina Agresti e della Settembrini, con i reclusi del carcere di Santo Stefano.
Oltre a dirigere il Circolo femminile, e il successivo Comitato politico femminile, attivo negli anni 1849-1855, Antonietta collaborò ad associazioni patriottiche meridionali quali l’Unità d’Italia (1848), la Setta carbonico - militare (1851), il Comitato segreto napoletano (1855), guidato da Mignogna, che propugnavano l’unificazione dei numerosi movimenti politici del Meridione sotto l’egida repubblicana. A causa della sua attività eversiva la donna era costretta a cambiare spesso abitazione, sia per non coinvolgere la sorella Rosa, sia per depistare la polizia borbonica. Lasciata la casa della sorella, si ritirò inizialmente nel convento di San Paolo in qualità di corista.
Nel 1854, per avere maggiore libertà di contatto con gli agenti della Giovine Italia, mostrando la necessità di "fare dei bagni", ottenne dalla superiora del convento il permesso di recarsi a casa di Caterina Valentino (sorella del defunto Epaminonda), che sosteneva le sue iniziative..
Lì fu arrestata il 26 agosto 1855 dalla polizia borbonica: pochi giorni prima era stato arrestato anche Nicola Mignogna, a causa del tradimento di Domenico Francesco Pierro, un infiltrato della polizia borbonica.
Al momento dell’arresto Antonietta "tolse dal petto due proclami di Mazzini, ne fece una pillola, poiché Mazzini usava la carta velina, e in faccia a loro li inghiottì", dicendo ai poliziotti che si trattava di un medicinale. Fu condotta al commissariato di polizia di Piazza Mercato, dove cominciava il fondaco del Carminiello tagliato dall’opera di Risanamento, che porta oggi il suo nome. Fu tenuta dal commissario Campagna, "fido servitore del dispotismo" in una stanzetta, per circa quindici giorni, senza potersi mai né distendere su un letto, né lavare, subendo interrogatori nel cuore della notte. Le accuse di cospirazione erano suffragate dal fatto che, pur avendo Antonietta distrutto la corrispondenza più pericolosa, nella sua cella del convento di San Paolo erano state rinvenute lettere che nel loro frasario facevano pensare a documenti politici cifrati, cosa che in effetti erano. Ma Antonietta fu sempre particolarmente abile nel sostenere gli interrogatori, tanto che non ne emersero prove vere e proprie delle sue attività cospirative. Uscita dal commissariato di Piazza Mercato, fu condotta nel carcere di S. Maria ad Agnone, retto dalle Suore di carità, dove fu reclusa per diciotto mesi; lasciò la prigione per recarsi alle udienze presso Castelcapuano per ben quarantasei volte.
Durante il lungo processo ebbe il solo privilegio di stare in una stanza da sola, mentre le altre detenute - prostitute, ladre, assassine - dormivano nei "cameroni". Antonietta era chiamata "la signorina", perché si trovava in carcere per "costituzione", ossia era una prigioniera di Stato. L’accusa muoveva dalla convinzione dell’esistenza di una cospirazione repubblicana guidata dal Mazzini. I proclami sequestrati al Mignogna e le lettere di Antonietta erano il corpo del reato. La difesa era rappresentata da prestigiosi avvocati napoletani: Castriota, Longo, Lauria e Pessina. Nonostante le confessioni del traditore Pierro, Mignogna tacque e Antonietta seppe magistralmente difendersi dalle accuse della polizia.
Il procuratore generale Nicoletti aveva chiesto la condanna a morte per Antonietta, ma poiché la giuria si espresse a parità di voti, tre contro e tre a favore, la donna fu assolta. "L’incertezza e il dubbio erano penetrati nell’animo dei giudici, l’opinione pubblica dichiarava il processo un’infamia….sul governo cadde il discredito delle potenze estere e l’anno successivo l’Inghilterra e la Francia ritirarono i loro ambasciatori lasciando a Napoli semplici agenti consolari" Il processo fece molto scalpore, perché l’imputato era una donna e, per giunta, appartenente all’alta borghesia. Vi partecipò sempre una gran folla, tra cui gli ambasciatori inglese, francese e della Stato sabaudo. Le corrispondenze dei giornali dell’epoca, tra cui l’Opinione di Torino, il Corriere Mercantile di Genova, il Journal des debats e il Times, erano tutte a favore dell’imputata.
Secondo la prassi giudiziaria dell’epoca Antonietta, libera, fu posta per un certo numero di anni sotto la tutela di un parente, il cugino Gennaro Rossi, barone di Capranica. Presso di lui, al numero 4 di Vico Storto Purgatorio ad Arco in Napoli, Antonietta visse fino al 1859, strettamente sorvegliata dalla polizia. Ma non abbandonò la sua attività di cospiratrice: fondò a Napoli un Comitato politico mazziniano, di cui facevano parte Antonietta Poerio, Raffaella Faucitano, e Alina Perret.
Sotto la guida di Antonietta, le donne, che si riunivano nella Villa Poerio in via San Nicola a Nilo, stabilirono nuovi contatti con il comitato mazziniano di Genova.
Nell’ottobre del 1858 Antonietta incontrò Beniamino Marciano, un giovane prete liberale di Striano, che era venuto ad abitare nello stesso edificio in cui risiedeva Antonietta. Tra i due nacque subito un intenso rapporto, sul piano sentimentale e politico; ma si sposarono solo nel 1876, quando Antonietta aveva già 58 anni. Beniamino divenne il segretario del comitato femminile; poi, insieme, si adoperarono per favorire l’impresa garibaldina. Quando, il 9 gennaio 1859, il Re Vittorio Emanuele II pronunziò le note parole "il nostro cuore non può rimanere insensibile al grido di dolore che giunge da ogni parte d’Italia…"Antonietta abbandonò ogni riserva e, lasciata la casa del cugino, si stabilì clandestinamente in via S. Giuseppe de Nudi, dove si raccoglievano sospettati e perseguitati politici. Per sfuggire alla polizia aveva studiato con cura le chiese napoletane dotate di una doppia uscita: entrata da una porta, usciva dall’altra! Si recava a casa della Poerio, dell’Agresti, al consolato sardo.
Divenne il tramite tra il Comitato napoletano e quello salernitano, che aveva sede nella casa dell’avvocato Nicola Ferretti. Lì giunse Garibaldi il 6 settembre 1860, con soli ventotto uomini. Il 7 settembre Garibaldi entrava trionfalmente a Napoli con i ventotto ufficiali e due donne, Emma Ferretti e Antonietta De Pace, vestita con i colori della bandiera italiana. A Beniamino Marciano fu affidato il comando ad interim della provincia di Salerno. Garibaldi affidò ad Antonietta la guida dell’ospedale del Gesù, mentre la direzione di tutti gli ospedali napoletani era affidata a Jessie White Mario. Garibaldi le assegnò, inoltre, una pensione di "venticinque ducati al mese pei danni e per le sofferenze patite per la causa della libertà"
Recatasi a Torino per i funerali di Cavour, Antonietta fu accolta con grandi onori dai patrioti meridionali che sedevano nel Parlamento italiano. negli anni successivi si batté per l’annessione di Roma al nuovo Stato, fondando a Napoli un Comitato di donne per Roma capitale, di cui facevano parte Alina Agresti, Luisa Papa, Enrichetta Di Lorenzo e Teodora Muller. Garibaldi scrisse al comitato napoletano, che gli aveva inviato del denaro "…Voi donne interpreti della divinità presso l’uomo molto già avete fatto per l’Italia, e molto ancora dovete operare per l’avvenire. Molto confido nelle donne di Napoli" . Per la sua attività a favore dell’annessione di Roma, Antonietta fu arrestata dalla polizia pontificia, mentre in treno si recava da Napoli a Firenze, dove il Marciano dirigeva il giornale l’Italia. Antonietta doveva presentare al governo italiano una relazione circa la possibilità di organizzare una spedizione militare di volontari guidata da Nicotera, per penetrare nell’agro romano da Ceprano. Fu rilasciata per le proteste del governo sabaudo e grazie alla sua abilità nel distruggere le carte compromettenti che portava con sé.
Dopo un periodo di depressione, dovuto alle alterne vicende politiche, e alla morte del nipote Francesco Valentino, avvenuta in battaglia a Bezzecca, Antonietta riprese la sua abituale vitalità, quando, il 20 settembre 1870, i soldati italiani entrarono a Roma. Intanto a Napoli, il progressista Imbriani, eletto sindaco, promosse importanti riforme nella pubblica istruzione, a cui si dette un’impostazione laica. Ad Antonietta fu affidata l’ispezione delle scuole della sezione Avvocata.
Si dedicò così all’attività educativa insieme al marito, assessore alla Pubblica Istruzione di Napoli. La malattia di lui, il suicidio del cognato Peppino Marciano, nel 1881, la morte di Caterina Valentino, provocarono un nuovo esaurimento nervoso ad Antonietta, che per distrarsi iniziò a viaggiare. Visitò col marito Roma, Firenze, Torino e Milano e tornò a Gallipoli, dopo trentaquattro anni di assenza. Si stabilì per un lungo periodo a Castellammare di Stabia, dove Beniamino Marciano dirigeva l’"Ateneo"; poi si recò a Striano, paese natio del Marciano. Il 1° maggio 1894 il municipio di Striano deliberò di intitolare ai due eroi due strade del paese.
Dopo essersi rifugiati in Puglia per sfuggire all’epidemia di colera del 1884, i due tornarono a stabilirsi a Napoli, a Piazza San Gaetano, dove era la sede dell’Istituto e del Convitto fondati dal Marciano. Antonietta si dedicò all’educazione dei fanciulli, che esortava dicendo: "noi abbiamo fatto l’Italia, voi dovete conservarla, lavorando a farla prospera e grande
Racconta Beniamino Marciano che il 3 aprile 1893 Antonietta, costretta da tempo a letto da una forte bronchite, chiese di bere dello champagne, che fu reperito con difficoltà, perché era lunedì in albis; "trovato il vino ella mi disse volerlo bere nel bicchiere a calice e subito la contentai: ne bevve avidamente un primo e dopo un secondo bicchiere…Ma in quello stato in cui ella era il vino la eccitò soverchiamente e si dette a discorrere" Poi lui le chiese: " Antonietta, mi ami?". Lei sorrise e a stento si udì la risposta: "e me lo chiedi?" Furono le sue ultime parole: Antonietta morì la mattina del giorno successivo, a 76 anni.
Ai suoi funerali parteciparono, con le fanciulle e le maestre delle scuole, le associazioni operaie, garibaldine e numerosi rappresentanti delle istituzioni. Il comune di Gallipoli chiese al Marciano il ritratto ad olio di Antonietta, dipinto dal Sogliano (ora esposto al Museo civico della città, accanto ai ritratti del nipote Francesco Valentino e di Antonio De Pace, zio di Antonietta ed insigne astronomo). Lo stesso municipio intitolò alla patriota una via cittadina. Nel 1959 le venne intitolato l’Istituto Professionale Femminile di Lecce. Silvio Spaventa le aveva detto, un giorno: "Signorina nei vostri costituti siete stata un uomo. Così molti uomini nei loro non si fossero dimostrati donne!"
Colomba Antonietti Porzi
patriota italiana
Colomba Antonietti, nata a Bastia Umbra, figlia dei fornai Michele Antonietti e Diana Trabalza, si trasferì giovanissima a Foligno.
Nella Chiesa della Misericordia (Foligno), il 13 dicembre 1846 sposò, contro il parere delle rispettive famiglie, il conte Luigi Porzi, (anch'egli eroe del Risorgimento), tenente delle truppe pontificie e discendente da una nobile famiglia di Ancona.
Dopo il matrimonio, Colomba Antonietti seguirà il consorte a Roma.
Nel 1848- 1849 il marito aderì alla Repubblica Romana. Colomba, romantica figura, per combattere al suo fianco, si tagliò i capelli e vestì l'uniforme da bersagliere. Inizialmente affrontò le truppe borboniche nella Battaglia di Velletri (18 - 19 maggio 1849) e di Palestrina, dimostrando coraggio, valore ed intelligenza, tanto da meritarsi l’elogio di Giuseppe Garibaldi. Successivamente combatté a Porta San Pancrazio in Roma, dove morì sotto il fuoco dell'artiglieria francese, in difesa della Repubblica Romana; la tradizione vuole che morendo tra le braccia del marito avesse mormorato: “Viva l’Italia”. Dopo la sua morte il Porzi si trasferì in Uruguay.
Fu sepolta dapprima nella Chiesa di San Carlo ai Catinari; nel 1941 le sue spoglie furono traslate presso il Mausoleo Ossario Garibaldino sul Gianicolo, che accoglie i caduti nelle battaglie per Roma Capitale e per l'Unità d'Italia (1849 – 1870).La sua morte eroica (non era usuale che una donna combattesse all'epoca) venne celebrata non solo da Giuseppe Garibaldi, ma anche da grandi poeti e scrittori, come Giosuè Carducci e Alexandre Dumas (padre).
Nella Chiesa della Misericordia (Foligno), il 13 dicembre 1846 sposò, contro il parere delle rispettive famiglie, il conte Luigi Porzi, (anch'egli eroe del Risorgimento), tenente delle truppe pontificie e discendente da una nobile famiglia di Ancona.
Dopo il matrimonio, Colomba Antonietti seguirà il consorte a Roma.
Nel 1848- 1849 il marito aderì alla Repubblica Romana. Colomba, romantica figura, per combattere al suo fianco, si tagliò i capelli e vestì l'uniforme da bersagliere. Inizialmente affrontò le truppe borboniche nella Battaglia di Velletri (18 - 19 maggio 1849) e di Palestrina, dimostrando coraggio, valore ed intelligenza, tanto da meritarsi l’elogio di Giuseppe Garibaldi. Successivamente combatté a Porta San Pancrazio in Roma, dove morì sotto il fuoco dell'artiglieria francese, in difesa della Repubblica Romana; la tradizione vuole che morendo tra le braccia del marito avesse mormorato: “Viva l’Italia”. Dopo la sua morte il Porzi si trasferì in Uruguay.
Fu sepolta dapprima nella Chiesa di San Carlo ai Catinari; nel 1941 le sue spoglie furono traslate presso il Mausoleo Ossario Garibaldino sul Gianicolo, che accoglie i caduti nelle battaglie per Roma Capitale e per l'Unità d'Italia (1849 – 1870).La sua morte eroica (non era usuale che una donna combattesse all'epoca) venne celebrata non solo da Giuseppe Garibaldi, ma anche da grandi poeti e scrittori, come Giosuè Carducci e Alexandre Dumas (padre).
La guerriera di Garibaldi
L'abbiam deposta la garibaldina
all'ombra della torre a San Miniato.
Con la faccia rivolta alla marina
perchè pensi a Venezia e al lido amato.
Era bella, era bionda, era piccina,
ma avea un cor di leone e da soldato,
di leone e da soldato!
(A Tonina Marinello, Inni e canti del Risorgimento)
Il caporale era un garibaldino, anzi l’unica garibaldina della storia: bionda, esile, bella. Antonia Masanello, coniugata Marinello, fu smobilitata assieme allo sposo con le altre camicie rosse dopo molti combattimenti e morì a Firenze nel 1862, a 29 anni. «Ho impiegato anni per dare sangue e carne a Tonina, come la chiamiamo noi, ad una figura che era solo mitica —racconta da Cervarese Santa Croce, Alberto Espen, il bibliotecario e storico che l’ha riscoperta— Quando ho ritrovato il suo certificato di battesimo quasi non credevo ai miei occhi». «La garibaldina? Zia Tonina... per noi è come una vecchia zia, di cui abbiamo sempre sentito parlare e ogni anno andavo con nonno Umberto e babbo Giovanni a portare un fiore sulla sua tomba», dice Paolo Marinello, il pronipote che a Firenze lavora e conserva la memoria di quell’ava formidabile. Antonia, Tonina, Masanella, la garibaldina. La sua storia è così incredibile che non sembra vera. Antonia Masanello di Antonio e di Maria Lucca di Zianigo fu battezzata il 28 luglio 1833 dal parroco di Montemerlo, frazioncina di Cervarese, don Giuseppe Lazzarotto, «padrino Agostin Terribile di Trambacche, mammana Francesca Romanin vedova Tessari».
Di famiglia povera, con il marito —non conosciamo neppure il suo nome, non sappiamo né dove lo conobbe, forse sul porto fluviale del castello di San Martino che si trovava vicino a casa sua, né quando fu celebrato il matrimonio— condivise gli ideali liberali e patriottici. Ben presto la polizia austriaca, il Veneto era sotto gli Asburgo, iniziò a tenere d’occhio la coppia che nel frattempo aveva avuto una figlia. Nella primavera del 1860, nottetempo, i due presero la bambina, varcarono la frontiera e scapparono a Modena. Ma non basta: affidata la figlioletta a qualcuno di cui si fidavano, corsero verso Genova dove si stava preparando la spedizione dei Mille. Arrivati dopo che il Piemonte ed il Lombardo erano salpati, si dettero da fare e alla fine si aggregarono alla spedizione del pavese Gaetano Sacchi: forse fu in quei giorni che Tonina decise, per non lasciare il marito, di nascondere il suo sesso, vestendosi da uomo e facendosi passare per Antonio Marinello, il fratello minore. Il travestimento ebbe successo, nessuno si accorse di niente e i due inseparabili sposini approdarono in Sicilia, subito dopo il trionfo dei Mille a Calatafimi. Accanto al «fratello» affrontò difficoltà e battaglie, compresi i durissimi scontri del Volturno, fino ad ottenere il brevetto di caporale. Narra la leggenda che solo il maggiore Bossi e il colonnello Ferracini conoscessero il suo vero sesso, che suo marito fu ferito più volte ma lei rimase sempre indenne, nonostante combattessero fianco a fianco, e che durante una mischia le volò via il berretto e vedendo i biondi capelli il generale Garibaldi intuisse la sua vera identità.
Finita l’avventura Antonio, tornato Tonina, e il marito ripresero la bambina a Modena e andarono a Firenze. Abitavano, poverissimi, nel cuore della città, le strette e sudice stradine tra il Ghetto e il mercato antico, in piazza de’ Marroni (scomparsa come altre piazze e strade per far posto a piazza della Repubblica quando il centro fu sventrato alla fine dell’Ottocento). Minata dalla tisi, Tonina morì il 20 o il 21 maggio 1862 e la notizia si sparse in città. Lo Zenzero, giornale edito a Firenze, raccontava il 23 maggio: «Popolani miei carissimi ieri l’altro sera quella bara che portava un cadavere all’ultima dimora dissero era di un garibaldino, anzi dissero una Garibaldina. Non sapete altro? Ascoltate». L’articolista spiegava che fu una combattente, né vivandiera, né infermiera, «che col suo fucile in spalla fece tutto quel che fecero quei generosi giovani», che «montava le guardie », che fece tutto «con disinvoltura e coraggio». La sua fama spinse l’intellettuale Francesco dell’Ongaro a dedicarle una poesia, Tonina fu sepolta al cimitero monumentale delle Porte Sante «all’ombra della torre di San Miniato» e perfino un quotidiano di New Orleans scrisse della morte dell’«eroina italiana», mentre la suffragetta Ada Corbellini chiese di riposare accanto a lei.
Sulla sua tomba una grande lapide riportava il cognome del marito ed i versi dell’ode di dell’Ongaro: «Era bionda, era bella, era piccina, ma avea cuor di leone. E se non fosse che era nata donna, poserebbe sul funereo letto colla medaglia del valor sul petto. Ma che fa la medaglia e tutto il resto, pugnò col Garibaldi e basti questo». Dal 1958 quella lapide è al cimitero di Trespiano, sotto il pennone del tricolore issato tra le sessanta tombe dei garibaldini, ci dicono che la sua fama era meritata, che fu davvero una donna eccezionale ». «Per noi è sempre stata una di famiglia. La sua storia, e quella di suo maritò che si risposò qui, era tramandata dai nonni — conclude il pronipote Paolo Marinello — Siamo contenti che finalmente l’oblio sulla nostra antenata stia svanendo». Ieri, a pochi giorni dal 148esimo anniversario della sua morte, il tricolore sventolava nel sole sopra la tomba di Antonia Masanello in Marinello: quasi un risarcimento simbolico ad una donna che combattè e mise a rischio tutta la sua vita per l’Unità d’Italia
Di famiglia povera, con il marito —non conosciamo neppure il suo nome, non sappiamo né dove lo conobbe, forse sul porto fluviale del castello di San Martino che si trovava vicino a casa sua, né quando fu celebrato il matrimonio— condivise gli ideali liberali e patriottici. Ben presto la polizia austriaca, il Veneto era sotto gli Asburgo, iniziò a tenere d’occhio la coppia che nel frattempo aveva avuto una figlia. Nella primavera del 1860, nottetempo, i due presero la bambina, varcarono la frontiera e scapparono a Modena. Ma non basta: affidata la figlioletta a qualcuno di cui si fidavano, corsero verso Genova dove si stava preparando la spedizione dei Mille. Arrivati dopo che il Piemonte ed il Lombardo erano salpati, si dettero da fare e alla fine si aggregarono alla spedizione del pavese Gaetano Sacchi: forse fu in quei giorni che Tonina decise, per non lasciare il marito, di nascondere il suo sesso, vestendosi da uomo e facendosi passare per Antonio Marinello, il fratello minore. Il travestimento ebbe successo, nessuno si accorse di niente e i due inseparabili sposini approdarono in Sicilia, subito dopo il trionfo dei Mille a Calatafimi. Accanto al «fratello» affrontò difficoltà e battaglie, compresi i durissimi scontri del Volturno, fino ad ottenere il brevetto di caporale. Narra la leggenda che solo il maggiore Bossi e il colonnello Ferracini conoscessero il suo vero sesso, che suo marito fu ferito più volte ma lei rimase sempre indenne, nonostante combattessero fianco a fianco, e che durante una mischia le volò via il berretto e vedendo i biondi capelli il generale Garibaldi intuisse la sua vera identità.
Finita l’avventura Antonio, tornato Tonina, e il marito ripresero la bambina a Modena e andarono a Firenze. Abitavano, poverissimi, nel cuore della città, le strette e sudice stradine tra il Ghetto e il mercato antico, in piazza de’ Marroni (scomparsa come altre piazze e strade per far posto a piazza della Repubblica quando il centro fu sventrato alla fine dell’Ottocento). Minata dalla tisi, Tonina morì il 20 o il 21 maggio 1862 e la notizia si sparse in città. Lo Zenzero, giornale edito a Firenze, raccontava il 23 maggio: «Popolani miei carissimi ieri l’altro sera quella bara che portava un cadavere all’ultima dimora dissero era di un garibaldino, anzi dissero una Garibaldina. Non sapete altro? Ascoltate». L’articolista spiegava che fu una combattente, né vivandiera, né infermiera, «che col suo fucile in spalla fece tutto quel che fecero quei generosi giovani», che «montava le guardie », che fece tutto «con disinvoltura e coraggio». La sua fama spinse l’intellettuale Francesco dell’Ongaro a dedicarle una poesia, Tonina fu sepolta al cimitero monumentale delle Porte Sante «all’ombra della torre di San Miniato» e perfino un quotidiano di New Orleans scrisse della morte dell’«eroina italiana», mentre la suffragetta Ada Corbellini chiese di riposare accanto a lei.
Sulla sua tomba una grande lapide riportava il cognome del marito ed i versi dell’ode di dell’Ongaro: «Era bionda, era bella, era piccina, ma avea cuor di leone. E se non fosse che era nata donna, poserebbe sul funereo letto colla medaglia del valor sul petto. Ma che fa la medaglia e tutto il resto, pugnò col Garibaldi e basti questo». Dal 1958 quella lapide è al cimitero di Trespiano, sotto il pennone del tricolore issato tra le sessanta tombe dei garibaldini, ci dicono che la sua fama era meritata, che fu davvero una donna eccezionale ». «Per noi è sempre stata una di famiglia. La sua storia, e quella di suo maritò che si risposò qui, era tramandata dai nonni — conclude il pronipote Paolo Marinello — Siamo contenti che finalmente l’oblio sulla nostra antenata stia svanendo». Ieri, a pochi giorni dal 148esimo anniversario della sua morte, il tricolore sventolava nel sole sopra la tomba di Antonia Masanello in Marinello: quasi un risarcimento simbolico ad una donna che combattè e mise a rischio tutta la sua vita per l’Unità d’Italia
ALLA SUA DONNA
Cara beltà che amore
lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
fuor se nel sonno il core
ombra diva mi scuoti,
o ne’ campi ove splenda
p iù vago il giorno e di natura il riso;
forse tu l’innocente
secol beasti che dall’oro ha nome,
or leve intra la gente
anima voli? o te la sorte avara
c h’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
nulla spene m’avanza;
s ’allor non fosse, allor che ignudo e solo
per novo calle a peregrina stanza
verrà lo spirto mio. Già sul novello
aprir di mia giornata incerta e bruna,
te viatrice in questo arido suolo
io mi pensai. Ma non è cosa in terra
che ti somigli; e s’anco pari alcuna
ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, così conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore
quanto all’umana età propose il fato,
se vera e quale il mio pensier ti pinge,
alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
questo viver beato:
e ben chiaro vegg’io siccome ancora
seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
l ’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
e teco la mortal vita saria
simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
del faticoso agricoltore il canto,
ed io seggo e mi lagno
del giovanile error che m’abbandona;
e per li poggi, ov’io rimembro e piagno
i perduti desiri, e la perduta
speme de’ giorni miei; di te pensando,
a palpitar mi sveglio. E potess’io,
nel secol tetro e in questo aer nefando,
l ’alta specie serbar; che dell’imago,
poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
Se dell’eterne idee
l ’una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s’altra terra ne’ superni giri
fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
e più vaga del Sol prossima stella
t ’irraggia, e più benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d’ignoto amante inno ricevi.
Giacomo Leopardi
lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
fuor se nel sonno il core
ombra diva mi scuoti,
o ne’ campi ove splenda
p iù vago il giorno e di natura il riso;
forse tu l’innocente
secol beasti che dall’oro ha nome,
or leve intra la gente
anima voli? o te la sorte avara
c h’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
nulla spene m’avanza;
s ’allor non fosse, allor che ignudo e solo
per novo calle a peregrina stanza
verrà lo spirto mio. Già sul novello
aprir di mia giornata incerta e bruna,
te viatrice in questo arido suolo
io mi pensai. Ma non è cosa in terra
che ti somigli; e s’anco pari alcuna
ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, così conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore
quanto all’umana età propose il fato,
se vera e quale il mio pensier ti pinge,
alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
questo viver beato:
e ben chiaro vegg’io siccome ancora
seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
l ’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
e teco la mortal vita saria
simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
del faticoso agricoltore il canto,
ed io seggo e mi lagno
del giovanile error che m’abbandona;
e per li poggi, ov’io rimembro e piagno
i perduti desiri, e la perduta
speme de’ giorni miei; di te pensando,
a palpitar mi sveglio. E potess’io,
nel secol tetro e in questo aer nefando,
l ’alta specie serbar; che dell’imago,
poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
Se dell’eterne idee
l ’una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s’altra terra ne’ superni giri
fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
e più vaga del Sol prossima stella
t ’irraggia, e più benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d’ignoto amante inno ricevi.
Giacomo Leopardi
DEDICATO ALLE DONNE
Tieni sempre presente che la pelle fa le rughe,
i capelli diventano bianchi,
i giorni si trasformano in anni.
Però ciò che è importante non cambia;
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito e` la colla di qualsiasi tela di ragno.
Dietro ogni linea di arrivo c'è una linea di partenza.
Dietro ogni successo c`e` un`altra delusione.
Fino a quando sei viva, sentiti viva.
Se ti manca cio` che facevi, torna a farlo.
Non vivere di foto ingiallite...
insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.
Non lasciare che si arruginisca il ferro che c'è in te.
Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto.
Quando a causa degli anni
non potrai correre, cammina veloce.
Quando non potrai camminare veloce, cammina.
Quando non potrai camminare, usa il bastone.
Pero` non trattenerti mai!
Madre Teresa di Calcutta
i capelli diventano bianchi,
i giorni si trasformano in anni.
Però ciò che è importante non cambia;
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito e` la colla di qualsiasi tela di ragno.
Dietro ogni linea di arrivo c'è una linea di partenza.
Dietro ogni successo c`e` un`altra delusione.
Fino a quando sei viva, sentiti viva.
Se ti manca cio` che facevi, torna a farlo.
Non vivere di foto ingiallite...
insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.
Non lasciare che si arruginisca il ferro che c'è in te.
Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto.
Quando a causa degli anni
non potrai correre, cammina veloce.
Quando non potrai camminare veloce, cammina.
Quando non potrai camminare, usa il bastone.
Pero` non trattenerti mai!
Madre Teresa di Calcutta
CORPO DI DONNA
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
tu appari al mondo nell'atto dell'offerta.
Il mio corpo di contadino selvaggio ti scava
e fa saltare il figlio dal fondo della terra.
Fui deserto come un tunnel. Da me fuggirono gli uccelli,
e in me la notte forzava la sua invasione poderosa.
Per sopravvivere ti forgiai come un'arma,
come freccia nel mio arco, pietra nella mia fionda.
Ma viene l'ora della vendetta, e ti amo.
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo.
Ah, le coppe del seno! Ah, gli occhi dell'assenza!
Ah, le rose del pube! Ah, la tua voce lenta e triste!
Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia.
Mia sete, mia ansia senza limite, mia strada indecisa!
Oscuri alvei da cui nasce l'eterna sete,
e la fatica nasce, e l'infinito dolore.
Pablo Neruda
tu appari al mondo nell'atto dell'offerta.
Il mio corpo di contadino selvaggio ti scava
e fa saltare il figlio dal fondo della terra.
Fui deserto come un tunnel. Da me fuggirono gli uccelli,
e in me la notte forzava la sua invasione poderosa.
Per sopravvivere ti forgiai come un'arma,
come freccia nel mio arco, pietra nella mia fionda.
Ma viene l'ora della vendetta, e ti amo.
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo.
Ah, le coppe del seno! Ah, gli occhi dell'assenza!
Ah, le rose del pube! Ah, la tua voce lenta e triste!
Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia.
Mia sete, mia ansia senza limite, mia strada indecisa!
Oscuri alvei da cui nasce l'eterna sete,
e la fatica nasce, e l'infinito dolore.
Pablo Neruda
Il tuo sorriso
Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l’aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l’acqua che d’improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d’argento che ti nasce.
Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.
Amor mio, nell’ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d’improvviso
vedi che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.
Vicino al mare, d’autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.
Riditela della notte,
del giorno, della luna,
riditela delle strade
contorte dell’isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l’aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.
Pablo Neruda
toglimi l’aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l’acqua che d’improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d’argento che ti nasce.
Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.
Amor mio, nell’ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d’improvviso
vedi che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.
Vicino al mare, d’autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.
Riditela della notte,
del giorno, della luna,
riditela delle strade
contorte dell’isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l’aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.
Pablo Neruda
Questo amore
Questo amore
Così violento
Così fragile
Così tenero
Così disperato
Questo amore
Bello come il giorno
Cattivo come il tempo
Quando il tempo e cattivo
Questo amore così vero
Questo amore così bello
Così felice
Così gioioso
Così irrisorio
Tremante di paura come un bambino quando e buio
Così sicuro dì sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che faceva paura
Agli altri
E li faceva parlare e impallidire
Questo amore tenuto d'occhio
Perché noi lo tenevamo d'occhio
Braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
Perché noi l'abbiamo braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
Questo amore tutt'intero
Così vivo ancora
E baciato dal sole
E' il tuo amore
E' il mio amore
E' quel che e stato
Questa cosa sempre nuova
Che non e mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda viva come l'estate
Sia tu che io possiamo
Andare e tornare possiamo
Dimenticare
E poi riaddormentarci
Svegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognarci della morte
Ringiovanire
E svegli sorridere ridere Il nostro amore non si muove
Testardo come un mulo
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Stupido come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
Ci parla senza dire
E io l'ascolto tremando
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti quelli che si amano
E che si sono amati
Oh sì gli grido
Per te per me per tutti gli altri
Che non conosco
Resta dove sei
Non andartene via
Resta dov'eri un tempo
Resta dove sei
Non muoverti
Non te ne andare
Noi che siamo amati noi t'abbiamo
Dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci morire assiderati
Lontano sempre più lontano
Dove tu vuoi
Dacci un segno di vita
Più tardi, più tardi, di notte
Nella foresta del ricordo
Sorgi improvviso
Tendici la mano
Portaci in salvo.
- Jacques Prévert
Perchè ti amo....
Perche' ti amo,
di notte son venuto da te
cosi' impetuoso e titubante
e tu non me potrai piu' dimenticare
l' anima tua son venuto a rubare.
Ora lei e' mia - del tutto mi appartiene
nel male e nel bene,
dal mio impetuoso e ardito amare
nessun angelo ti potra' salvare.
~ Herman Hesse ~
Quando si scrive delle donne,
bisogna intingere la penna
nell'arcobaleno........
(D.Dederot)
bisogna intingere la penna
nell'arcobaleno........
(D.Dederot)